Eleonora Danco, autrice, regista e attrice di teatro, romana, alla rassegna del nuovo cinema italiano Open Roads ancora in corso al Lincoln Center, partecipa col suo primo film: N-CAPACE. Abbiamo avuto la fortuna di essere seduti allo stesso tavolo durante il pranzo con i registi tenuto al ristorante Barbetta, e con Eleonora Danco sono bastate poche parole per sentire subito le "vibrazioni d'artista". Quindi, abbiamo visto il film e dopo averlo amato, abbiamo subito chiesto un' intervista.
N-CAPACE di Eleonora Danco si puo' ancora vedere mercoledì 10 giugno, alle 6:30 pm.
Perché un'autrice di teatro decide di esprimersi nel cinema?
“E’ stato un passaggio naturale per me. Io creo un teatro molto simile come linguaggio, come poetica espressiva a questo film. Anche nel mio teatro c'è molta libertà espressiva dentro un grande rigore e semplicità. Ma anche molta ironia, vitalità. Ho solo spostato il modo tecnico pratico. La necessità era la stessa”.
Allora, spieghiamo innanzitutto il titolo del film…
“N-CAPACE sta per Non capacità ma anche capacità. Intendo a vivere, a saperci fare con la realtà. Avere a che fare con la propria memoria, con i condizionamenti ricevuti nell'infanzia rispetto alla nostra vita adulta”.
La tecnica usata è quella dell'intervista: perché la scelta di far sentire la tua voce comunque sottofondo, un po' lontana, insomma non chiara come quella di chi risponde alle domande?
“In realtà non le considero interviste, ma performance. Questo film non documenta nulla dal punto di vista narrativo formale. Ho cercato di far uscire fuori dalle persone scelte, il loro stato emotivo, i momenti più salienti, forti della loro vita, nel bene e nel male nel comico come nel drammatico. Li ho fatti diventare attori senza che se ne accorgessero. Per questo sono così spiazzanti le loro performance. Insolite. La mia voce è stata volutamente tenuta più indietro rispetto alla loro. Proprio perché non contava tanto la domanda quanto la performance, l'immediatezza della realtà”.
Pochi mesi fa Walter Veltroni usciva contemporaneamente al tuo film con il film "I bambini sanno" dove pero' intervistava soltanto bambini… A parte le differenze di tecnica nel modo di girarlo, il tuo film invece si concentra su persone anziane, come tuo padre ma anche molto più anziane, come "Mafalda", oppure teen-ager, insomma ragazzi dai 16 anni in su ma che hanno meno di venti anni. Perché questa scelta di fascie di età? I trentenni, quarantenni, cinquantenni non ci sono nel film…
“Questo film è molto artificiale. Cioè io almeno ho cercato e voluto farlo così. Non è un documentario ma sono delle installazioni della memoria. Istallazioni cinematografiche. Non ho usato l'età di mezzo perché non mi serviva in questo lavoro. Gli anziani e gli adolescenti sono fuori il sistema produttivo, sono in sospensione. Una sorta di attesa. E questo li rende più interessanti, più divertenti e forti come impatto anche visivo. E poi sono gli estremi, quello che siamo e quello che diventeremo. Almeno fisicamente. Non è una messa a confronto culturale. Di dire, prima era meglio,o peggio. Sono solo messi davanti agli stessi quesiti”.
Il film, il suo ritmo, come è girato ricordano immagini che sembrano un mix tra Pasolini e Fellini… Che autore di cinema ti ha ispirato di più?
“Il primo giorno che ho incontrato il direttore della fotografia le ho detto: io non lo so che cosa è il cinema e non lo voglio nemmeno sapere. Non voglio fare un film, voglio fare il mio film. Avevo le idee chiarissime sulle inquadrature. Pasolini e Fellini sono due autori grandissimi che stimo e adoro. Ma io mi sono ispirata alla pittura di Giorgio De Chirico, allo spirito del sureallismo cinematografico di Luois Bùnuel. Ho mischiato tanti stili in questo film, con coraggio, anche incoscienza. Ho avuto un rapporto con il film molto libero, paritario. È questo forse che lo rende così audace e diverso”.
Sembra che le interviste più difficili siano quelle con tuo padre, colui che spesso si rifiuta di rispondere… Te lo aspettavi? E perché ad un certo punto lo vesti da astronauta?
“Ho usato mio padre come ho fatto con tutti gli altri, provocando in lui delle reazioni emotive. Non m'interessava il bel pensiero, le parole possono anche non comunicare nulla. Quello che cercavo erano momenti diretti, vivi. Mio padre che conosco bene sapevo come farlo reagire. E questo ha creato dei momenti divertenti e spiazzanti tra me e lui. Anche crudi. Un po' me lo aspettavo, perché lo conosco. Ho vestito da astronauti lui e la badante solo in casa. Ho usato come spunto la mia condizione per parlare di un problema che riguarda molte famiglie in Italia. Prima i genitori anziani rimasti soli si portavano in casa dei figli, ora ci sono le badanti. La mia casa dell'infanzia era il regno della confusione, tanti figli piccoli, mia madre che cucinava, noi che facevamo un grande casino, c'era la vita, ora è tutto silenzio. Nessuno di noi vive più in casa con mio padre, mia madre è morta lui ha riempito la casa di nostre foto, e quando entro lì dentro mi sembra che ci sia un altro ossigeno un altra atmosfera. Loro mi sembrano come due astronauti. Ecco perché. Non era una scelta per colpire e basta. Era una visione molto intima”.
Tua madre appare come in un sogno. Nella prima scena, vicino al mare, come nell'ultima. Lei non parla, ma tu le ripeti "sono le undici, posso…." Insomma un ricordo di infanzia. E' stata la mancanza di tua madre la scintilla che ti ha spinto a fare questo film?
“La morte di mia madre ha cambiato degli equilibri. Ma non è un film autobiografico. Parto da una condizione molto intima personale, per rilanciare conflitti dell'uomo contemporaneo in modo universale. Possono riguardare tutti. Anche perché il film ha una componente visiva molto forte. Si è inventato un linguaggio visionario e al tempo stesso popolare. È immediato, a chiunque può arrivare quella forza”.
Infatti nel film non ci sono soltanto affetti e problematiche personali, affronti soprattutto con i giovani anche questioni sociali oggi roventi in Italia, come la scuola, il lavoro… I ragazzi e le ragazze con cui parli sono tutti di classi sociali disagiate, sembrano tutti costretti a dover lavorare subito, la scuola e l'istruzione superiore non sembra mai un obiettivo… Perché questa scelta? Pensi che questa Italia, dopo i film di Pasolini, sia rimasta finora nell'oblio?
“Non ho pensato mai facendo N-CAPACE di fare un film politico, cioè nel senso di parlare di società con loro. Ma attraverso loro, attraverso questa forma di gioco e sincerità, sono uscite fuori molte ferite del nostro sistema culturale. Quello che mi interessava raccontare erano le persone nella loro intimità”.
Non manca l'indagine sul sesso: le domande le fai a tutti, ai giovani come agli anziani. Ad un signore gli fai confessare come ebbe il suo primo rapporto a soli dodici anni… A tuo padre fai domande alle quali non ti risponde, persino alle nonnine chiedi, ma loro rispondono… E poi ai ragazzi, tante domande ma se non ricordo male mai alle ragazze… Cosa cercavi in queste risposte? E cosa hai trovato invece?
“Tutti sono così sicuri nel film, che quasi spaventa. Le persone hanno una idea molto chiara di come si vive. Almeno in apparenza, pensano di aver capito. Tranne il mio personaggio che va in giro con un letto per la città e in pigiama. Oppure armata di piccone tenta di distruggere la nuova architettura che ha tradito i suoi ricordi. Sul sesso poi tutti si difendono, chi con arroganza chi con sicurezze assolute. In fondo il sesso rimane un grande tabù per l'Italia. Le ragazze infatti, non volevano parlarne. Ho trovato molta resistenza su questo. Non era volute”.
Per questa rassegna Open Roads del Lincoln Center hai trascorso alcuni giorni a New York: Ti piace? NYC ti ha forse già ispirato il tuo prossimo film?
“New York è una città fantastica. Ma più che città è qualcosa che ti travolge ma ti fa sentire a casa, di spiazza e ti esalta. È una stazione unica camminare per le strade di New York. Fosse per me ci verrei a vivere subito. I giorni non sono stati molti, ma l'impatto delle strade sopratutto alcune strade mi ha ricordato che bisogna puntare all'arroganza, bisogna buttarsi. Sempre”.
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