Brillante, simpatico, un bravo ragazzo con la battuta (e la risata, soprattutto) sempre pronta. Nella rosa di attori e registi presenti al festival di cinema Open Roads, Ivano De Matteo non passa di sicuro inosservato. È la seconda volta che si presenta a New York da regista (la prima, nel 2002, sempre a Open Roads con la sua opera prima Ultimo Stadio), con il film I nostri ragazzi, liberamente ispirato al romanzo di Herman Koch La cena. La storia vede protagoniste due famiglie benestanti, fratelli e cognate tra loro (nel cast, Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassmann, Giovanna Mezzogiorno e Barbara Bobulova), la cui ovattata routine quotidiana viene interrotta da un dramma: i figli, i due cugini, vengono ripresi da delle telecamere di sorveglianza nel bel mezzo di un pestaggio nei confronti di un senzatetto. Cosa fare? Come reagire? Son queste le domande che De Matteo si pone in questo suo ultimo film, non solo come regista, ma anche come genitore.
Da Er Puma in Romanzo Criminale – La Serie (e non solo) all'attuale punto di arrivo, di acqua sotto i ponti ne è passata e oggi, dopo un paio di film andati bene, De Matteo si sente un po' più tranquillo come regista, pur sempre abituato, come fan tanti, a dover fare l'equilibrista non solo nella vita, per poter sbarcare il lunario, ma anche nel mondo del cinema, un mondo che oggi in Italia in pochi si possono permettere (questo tema dell'equilibrismo è una cosa in cui Ivano crede molto, gli ha dedicato persino un film, Gli Equilibristi, e si è fatto tatuare sull'avambraccio un piccolo equilibrista in bilico su una fune). Ama Roma perché c'è nato, ma ha sempre viaggiato tanto, “Motivo per cui – dice – c'ho la capoccia bella aperta”, e degli italiani non sopporta il loro continuo piangersi addosso (come dargli torto?). Sul set gli piace fare scherzi, ma non scherzetti, scherzi seri, organizzati bene, che mi racconta e poi mi chiede di omettere. E così, tra una richiesta di omissione e un'altra, arriviamo alla fine dell'intervista che ci siamo fatti entrambi un sacco di risate. La prima, subito, appena ci siamo incontrati, quando colpa di un lapsus freudiano l'ho chiamato Matteo.
Questo film non è passato inosservato al Festival di Venezia. Te l'aspettavi?
Il film tocca un tema abbastanza delicato, era normale che ne parlassero.
Quanto c'è di biografico in questa storia? Voglio dire, non a livello di trama, ma per le riflessioni che anche tu, come padre, ti sarai ritrovato a fare…
C'è tanto, oltretutto l'abbiamo scritto insieme alla mia compagna, siamo andati a cercare quella parte nascosta che viene fuori nei momenti emotivi molto forti, in questo caso un dramma familiare, e ci siamo chiesti cosa avremmo fatto, come avremmo reagito noi in quella situazione. È chiaro che l'accadimento non c'è stato, ma ci siamo interrogati sulle nostre reazioni.
Da adolescente di ieri, come vedi gli adolescenti di oggi?
A me spaventava già la mia generazione di adolescenti. Quelli di oggi mi spaventano ancora di più perché c'è stato, non dico un peggioramento, ma un cambiamento, una sorta di voglia di protagonismo portata all'eccesso e all'esasperazione, tutto amplificato dall'avvento delle nuove tecnologie e dei social network. Quello che prima facevi per atteggiarti con 4, 5 amici tuoi, adesso lo fai in mezzo a migliaia di spettatori, sei un attore più protagonista e quindi hai bisogno di pubblico, e più hai bisogno di pubblico, più devi fare l'attore.
Quindi è un problema assolutamente indipendente dalle dinamiche e dai contesti famigliari?
Assolutamente sì, altrimenti avrei potuto fare un film sui ragazzi di periferia. In realtà io penso che il dramma che racconto nel film possa coinvolgere qualsiasi famiglia, possa succedere anche nelle case della bella gente.
Come pensi vengano accolte e condivise le tematiche che presenti nel film dal pubblico americano?
Ma sai, la domanda che mi pongo io nel film è una domanda che si può porre tranquillamente un genitore americano, così come un giapponese, o un coreano. Chiaramente con le dovute differenze, ma il problema di scegliere cosa fare nel caso in cui tuo figlio commetta una cosa del genere, penso se lo ponga chiunque, l'America a maggior ragione, che è molto europeizzata e non credo sia troppo lontana dalla nostra realtà. Il film sta girando un po' dappertutto: oltre alla Francia, dove è andato molto bene, è stato venduto agli Stati Uniti, all'Australia, alla Nuova Zelanda, alla Grecia, alla Corea, alla Turchia. Può essere considerato bello o brutto, ma non è questo il punto; il punto è che se faccio questa domanda in giro per il mondo, sono sicuro che tutti potrebbero immedesimarsi e provare a rispondere.
Prima volta a New York come regista?
No, è la seconda. Ero già venuto qua nel 2002 alla seconda edizione di Open Roads, con il mio primo film, Ultimo Stadio. A parte la demenza senile che non mi fa ricordare nel dettaglio quella esperienza [ride], mi ricordo che ero contentissimo perché stavo per presentare la mia opera prima, che tra l'altro aveva cominciato a girare il mondo e andava bene. Anche la critica lo notò. Da turista, invece, sono venuto diverse volte, la prima volta a 19 anni, quando ero un pischello, da solo. Da ragazzo c'era forse Londra che mi attirava di più, non ho mai pensato a “mamma dammi le cento lire che in America voglio andar”!
Cosa significa oggi fare l'attore e il regista in Italia?
L'attore lo faccio per scherzo. Da regista, se dovessi darti le mie visioni, sarebbero un po' contraddittorie…
Proprio quelle mi interessano.
Mi sento un po' fuori, cioè, ci sto dentro, ma questo mondo cerco di guardarlo soprattutto da fuori. Nel mio film Gli equilibristi, dicevo che il divorzio è per i ricchi, quelli come noi non se lo possono permettere. Parafrasando la frase, potrei dire che il lavoro del regista oggi è per i ricchi, quelli come me non se lo potrebbero permettere. Se non hai le spalle coperte e ti dice bene, riesci a fare un film ogni due anni. E nei momenti di buco come campi? Io e la mia compagna, che ormai stiamo insieme da 25 anni, cerchiamo di coprire questi momenti di buco. Adesso, da un paio di anni, le cose stanno andando meglio e quindi mi sento un po' più tranquillo, ma son son pur sempre un equilibrista [e mi mostra il tatuaggio nell'avambraccio sinistro].
Cosa ti fa imbestialire dell'Italia?
Non sfruttare il potenziale artistico e paesaggistico che abbiamo, siamo sempre con i debiti. Magari altri stati hanno un quadro e una spiaggetta e se la sanno vendere meglio. Poi il fatto che ci piangiamo un po' troppo addosso, quando invece abbiamo delle grosse potenzialità.
A cosa, invece, non potresti rinunciare?
Sono abbastanza legato alla mia città, Roma, perché ci sono nato. Ma magari a un altro piace Velletri, o Marino…va be', ma questo è un discorso del cazzo, lo puoi pure omettere…
Ci lasci con un aneddoto accaduto durante le riprese del film?
Ah, oddio, pensavo mi chiedessi: “Ci lasci qualche sordo?”, t'immagini? [si fa una grassa risata] Sappi che io mi diverto sul set.
Non mi viene difficile immaginarlo…
Mi piace fare scherzi. Pensa che una volta mi sono pure fatto arrestare: ho fatto venire due comparse vestite da carabinieri e mi sono fatto portare via, però lo scherzo è durato solo dieci minuti perché sono andati tutti nel panico. Un altro scherzo abbastanza pesante lo volevo fare a Lo Cascio, poi mi son detto che era meglio di no, e allora l'ho fatto a un direttore della produzione: ho fatto venire sul set un trans vero, l'abbiamo pagato, e gli ho fatto fare una scena di gelosia davanti a cento persone, ovviamente tutto organizzato con l'aiuto della regia. Va be', ma anche 'ste cose le puoi omettere…
The Dinner (I nostri ragazzi) sarà proiettato al Walter Reade Theater del Lincoln Center lunedì 8 giugno alle 4.00 pm.
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