Attore, operatore, regista, doppiatore figlio di doppiatori: Adriano Giannini è uno che il cinema l’ha sempre respirato e ne ha imparato a conoscere gli aspetti più creativi come quelli più tecnici. A New York, per la rassegna di cinema italiano Open Roads, Giannini presenta il film La Foresta di Ghiaccio, di Claudio Noce, in cui interpreta un burbero, temerario e un po’ pazzoide montanaro (Lorenzo) che, insieme al fratello Secondo (Emir Kusturica), sembra nascondere misteri che vanno ben oltre la tranquilla vita del paesino in cui i due vivono. Ambientato al confine tra Italia e Slovenia, tra le selvagge Dolomiti, girato nel mese di gennaio sotto continue nevicate, il film ha una bellissima fotografia e un ritmo e un sapore Nord europei.
Nei panni di Lorenzo, Giannini fuma il sigaro, ha un forte accento trentino, una folta barba e capelli incolti, ed è ben più grosso di come siamo abituati a vederlo. Quando lo incontriamo a New York, è tornato il Giannini romano di sempre e ci racconta del lavoro sul set e di Kusturica, delle sua esperienza nel doppiaggio e di una New York che ama.
La Foresta di Ghiaccio è un film strano, molto poco italiano. Ci puoi dire come hai deciso di partecipare a questo progetto e cosa della sceneggiatura ti ha attirato e convinto a farne parte?
Tutto nasce molto tempo prima, perché io sono amico di Claudio [Noce, il regista del film]. Eravamo insieme in giuria in un festival di sceneggiatura e quindi lui mi ha iniziato a parlare di questo film due anni prima di farlo. Avevo visto il suo film precedente e mi interessava, soprattuto nell’aspetto visivo. Poi dopo due anni mi ha portato questa sceneggiatura e mi ha detto ‘guarda io inizio’. Gli ho detto: ‘ok, facciamolo’. Il film è interessante e poi a me piace tantissimo andare a girare in posti estremi. Sono abituato, perché ho fatto per tanti anni l’operatore e ho sempre lavorato in posti infami… non mi è mai capitato un posto carino, solo posti tremendi [ride]. Poi mi piace usare questo lavoro per conoscere luoghi e posti che non vedresti mai da turista. E poi mi attirava questo personaggio che andava costruito. Nella sceneggiatura c’erano delle tracce, ma molto andava inventato. La sfida per me era innanzitutto renderlo credibile perché lavoravamo con degli attori in gran parte non professionisti, presi sul luogo. Quello è sempre complicato perché per quanto sia un attore, io sempre da Roma centro vengo… [ride] Quelle sono persone nate e cresciute sulle montagne: hanno le dita così [fa un gesto a indicare dita tozze], la faccia così [indica la dimensione di un bel faccione], escono a meno cinque con la camicia e bevono la grappa alle nove del mattino.
Si beve parecchio in questo film…
Io impostato il personaggio così, non era scritto così. Ho voluto ricalcare quello che vedevo intorno a me. C’è una fisicità diversa. Ho lavorato molto sull’appesantirmi, ho dovuto ingrassare, bevevo e mangiavo tantissimo: stinchi e polente a colazione. Poi anche con i costumi, mi ero messo delle scarpe molto pesanti, molti strati di roba, un giubbotto grosso, ho cercato di appesantire il corpo, con i vestiti, la camminata. Era una sfida anche quella, perché è un attimo che fai una cosa e diventa ridicola… Poi c’era la questione del dialetto. Lì si parla un dialetto molto stretto.
Questo volevo chiedertelo, come ti sei trovato con quell’accento? È stato difficile impararlo?
Sono stato un po’ in difficoltà all’inizio perché Claudio non era sicuro dell’accento che voleva. Per me era già difficile, perché la gente parlava un dialetto che nemmeno uno di Trento capisce. E poi io dovevo studiarlo il dialetto, perché non è che lo imparo così… E ho avuto molto poco tempo. Allora ho fatto di necessità virtù: a volte nel cinema devi trovare delle vie di fuga che poi però diventano parte integrante del personaggio. Siccome non ero al cento per cento sicuro del dialetto, ho impostato il personaggio in modo che beveva sempre e aveva sempre il sigaro in bocca, così si impastava tutto… Ed è diventata una caratterizzazione del personaggio che lo rende più solitario, più malinconico, più chiuso.
Avete girato in luoghi estremi, come dicevi. Nel film nevica di continuo. Raccontaci qualcosa di come è stato girare in quelle condizioni.
Beh, intanto io ero spesso con la mia macchina e l’ho schiantata due volte nei tornanti andando sul set. Ero convinto che siccome ho la jeep andavo tranquillo. Invece la jeep senza gomme da neve è una macchina normale. Ho fatto un po’ di danni alla mia macchina. Poi in quelle condizioni di cose ne succedono parecchie. Anche cose buffe. Magari sei sul set, tutto serio e ti avvii da una parte, tutto impegnato, e invece poi invece metti il piede nella neve fresca e sparisci, sommerso fino alla testa.
In che stagione avete girato?
Era gennaio, e nevicava e quando nevicava, nevicava sul serio.
Emir Kusturica nei panni di Secondo, il fratello di Lorenzo, interpretato da Giannini
Nel film recita anche Emir Kusturica, come è stato lavorare con lui? É bravo come attore quanto lo è come regista?
Lui è una delle ultime figure mitologiche del cinema, per quello che racconta, per come ha fatto i film, per come si presenta. Ed è facile lavorare con lui perché conosce talmente bene tutto il meccanismo, è un artista vero e si mette a disposizione da regista, anche facendo l’attore: si mette a disposizione della scena e dell’altro in scena. Sa quali sono i problemi perché li conosce molto bene da regista. Poi è una persona con un fascino e un carisma incredibili. A cena io mi mettevo sempre vicino a lui, ad ascoltare i suoi discorsi, i suoi racconti, le sue pause.
Tu sei figlio di uno dei più grandi doppiatori italiani e sei doppiatore tu stesso. Quindi in qualche modo rappresenti la tradizione di questa professione che però, secondo molti, è una pratica che snatura il film e che andrebbe abolita. Se dovessi fare un’apologia del doppiaggio cosa diresti?
Sinceramente penso che il doppiaggio è comunque uno scempio rispetto all’originale. Però, da noi è una tradizione e noi siamo quelli che nel mondo lo hanno fatto, per una serie di motivi storici su cui non entro, nel modo migliore. Nello scempio noi italiani siamo i più bravi al mondo a farlo. Però la qualità del doppiaggio di oggi è molto scadente secondo me, perché si sono ridotti i tempi, si sono omologate le voci e il modo di recitare. Venendo qui in aereo ho guardato Manhattan di Woody Allen, in cui tra l’altro mia madre doppiava Diane Keaton, e mi accorgevo di come recitavano e doppiavano in quegli anni e devo dire che c’era un’attenzione che oggi non c’è. A parte che il doppiaggio lo facevano degli attori bravissimi. Ma le voci non erano voci che riproducevano dei suoni, come avviene adesso, con una tecnica. Ma erano attori che cercavano di entrare dentro quella scena. E poi, oltre agli attori, c’era una grande attenzione alle tipologie di suoni, alle distanze, alle dimensioni. Adesso è tutto uguale..
Quindi non ce la fai questa apologia del doppiaggio…
Eh, no… non la faccio. Che ti devo apologia’… No, vabbè, io ho avuto la fortuna di fare delle cose belle, in cui mi sono battuto per avere anche dei tecnici validi, che aiutano molto in quella fase, e di doppiare attori talmente bravi che devi cercare soltanto di restituire quello che hanno fatto in originale. Adesso ho doppiato la serie True Detective… certo, cerchi di avvicinarti a quello che senti, ma come faccio io in uno studio sottoterra sull’Appia a suonare meglio di quello che gira in Louisiana in esterni? Cerchi di farlo al meglio, ma è comunque una falsificazione.
Comunque ti diverte?
Mi diverte quando doppio degli attori bravi perché imparo: hai la possibilità di vedere lo stesso ciack molte volte, perché devi capire che cosa fa l’attore e, se è un attore bravo che fa cose difficili, devi capire come fare a restituirlo. Ti fai delle domande. Ti chiedi perché è così bravo? Cosa fa? Come si posiziona? Dai bravi si impara sempre. È un lavoro che è tecnico-artistico e io, avendo fatto l’operatore per tanti anni, ho una formazione tecnica. L’aspetto tecnico per me è facilissimo.
Tuo padre è stato la voce di tantissimi attori noti. Che effetto ti faceva andare al cinema e sentire la voce di tuo padre?
Forse era più forte vedere mio padre al cinema che recitava. Lo sdoppiamento del doppiaggio, mi è sempre sembrato normale: è come se hai il padre medico e lo vedi col camice. Forse mi fa più impressione sentire mia madre che ha fatto un po’ meno film, anche se ne ha fatti tanti anche lei. Con mio padre ho lavorato tante volte sul set, facevo l’operatore con lui, non mi fa nessun effetto. Mia madre l’ho sentita ieri, come dicevo, su Manhattan e, sì, mi ha fatto un po’ più effetto.
Adriano Giannini in una scena del film La foresta di ghiaccio
Tra gli attori che tuo padre o tua madre doppiavano ce n’è qualcuno che ti piace in modo particolare sentire con la loro voce?
Al Pacino che lui ha doppiato tanto. Lui doppiò il primo film di Al Pacino, Quel pomeriggio di un giorno da cani. E poi in Barry Lyndon dove doppia Ryan O’Neal. O Jack Nicholson. Nei film di Kubrick mi piace. Sai, quando senti che il doppiaggio fa parte della storia… mi piace sentirlo.
Come ti aspetti che venga recepito questo film in America considerando che è così poco italiano e forse si discosta da quello che generalmente ci si aspetta dal cinema italiano?
Il pubblico americano è difficile, non l’ho mai capito bene. Spesso vuole vedere dell’Italia quello che si immagina quindi un film così può spiazzare. Ma va bene così, è giusto che spiazzi. A Tokyo abbiamo fatto una proiezione di questo film e i giapponesi quando si alzavano chiedevano: ‘Scusa ma in Italia non c’è il sole? Ma l’avete girato in Italia?’. Quindi non lo so, capire il pubblico è sempre difficile e il pubblico americano non lo conosco abbastanza, però forse anche loro penseranno che il film è girato in Alaska. Chissà…
New York. Che effetto ti fa questa città? Ti piace?
Mi piace molto, ci vengo spesso, due o tre volte l’anno, anche perché ho amici qui. È una città unica al mondo, con un’energia particolarissima, di giovani, soprattuto per chi fa il mio lavoro o gravita intorno al mondo artistico, di scambio continuo, fermento, gente di tutto il mondo che si incontra. Qui c’è un investimento reale nei giovani. E provo un po’ di invidia perché secondo me è quello che manca un po’ in Italia: questa possibilità di stare tra giovani, confrontarsi, creare uno scambio artistico e di visioni e poi creare insieme. In Italia ci manca la possibilità di un allegro scambio, penso che siamo impauriti nei nostri piccoli mondi.
Hai una tua ritualità a New York?
Vado sempre a Soho o comunque downtown, quassù [Upper Manhattan] non mi piace, mi opprime. Vado sempre in un ristorante su Bond Street, Il buco, che è di una mia amica. Poi c’è un buchetto di cinesi a Soho che fanno massaggi e sono i migliori al mondo. Quindi ogni volta, appena scendo dall’aereo, ormai da anni, vado lì e mi faccio subito un’ora di massaggio e mezzora di piedi. Loro mi conoscono e quando mi vedono ridono, perché arrivo lì con le valigie, ma sono dei geni. Davvero.
The Ice Forest (La foresta di ghiaccio) sarà proiettato al Walter Reade Theater del Lincoln Center domenica 7 giugno alle 3.30 pm. Dopo la proiezione Adriano Giannini risponderà alle domande del pubblico.
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