Uno spaccato di Sud Italia arriva nelle sale cinematografiche americane. Anime Nere non è un documentario ma del documentario ha un senso di cruda realtà che, nei volti iconici dei personaggi e nei paesaggi aspri e immobili ritratti dal regista Francesco Munzi, diventa eterna e assoluta.
È la realtà di Africo, paese dell’Aspromonte dove la profonda Calabria è da anni sinonimo di faide, cosche, ‘ndrangheta. Paese natale di Giuseppe Morabito, per anni a capo della cosca locale, Africo è nota alle cronache ma resta un mondo isolato e impenetrabile.
Nel suo Anime Nere Francesco Munzi non attinge alla cronaca né azzarda analisi sociologiche, come ci racconta in questa intervista. Liberamente ispirato al libro omonimo di Gioacchino Criaco, del 2008, il film racconta la vicenda di tre fratelli figli di un pastore ucciso anni prima da una famiglia del luogo e coinvolti nella malavita dell’Aspromonte. Il più giovane, Luigi (Marco Leonardi, il Totò adolescente di Nuovo Cinema Paradiso), traffica cocaina a livello internazionale. Rocco (Peppino Mazzotta) vive a Milano con la moglie Valeria (Barbora Bobulova) e fa l’imprenditore edile riciclando i guadagni illeciti del fratello minore. Il maggiore dei tre, Luciano (Fabrizio Ferracane), se ne sta alla larga dagli affari dei fratelli, alleva capre, coltiva la terra e cerca di tenere il giovane figlio Leo (Giuseppe Fumo) al riparo dalla cultura criminale e dalle antiche faide tra famiglie. Ma Leo è una testa calda e vive nell’odio verso la famiglia rivale. Sarà lui a scatenare un meccanismo di vendette incrociate dalle tragiche conseguenze.
Il film è stato presentato all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia dove ha ricevuto diversi premi e una nomination al Leone d’oro per la regia. Ora arriva negli Stati Uniti, con il titolo Black Souls, dove aprirà il 10 aprile all’Angelika Film Center di New York e sarà poi a San Francisco, Philadelphia, Los Angeles, Dallas e molte altre città americane (in fondo la lista completa delle sale).
Non è cosa di tutti i giorni vedere un film italiano nelle sale americane, ancor più un film che parla, lontano dagli stereotipi, di un’Italia profonda e sconosciuta anche agli stessi italiani. Come ha spiegato il regista dopo la presentazione in anteprima a New York, non è uno di “quei film sulla borghesia romana” che sono spesso gli unici a riuscire a sbarcare oltreoceano. È un film di fiction, ma è anche un film vero, girato quasi interamente ad Africo, con molti attori non professionisti scelti tra la gente del luogo.
Francesco, raccontaci l’esperienza di girare questo film ad Africo. È davvero l’enclave isolata descritta dalle cronache?
Il film parte da un libro dallo stesso titolo, anche se molto diverso, e poiché si trattava di raccontare un mondo a me sconosciuto ho chiesto allo scrittore, che è del posto, di introdurmi alla comunità. Si tratta di una comunità che ha una fama terribile in Italia: sia la cronaca giudiziaria che giornalistica lo stigmatizzano come posto impenetrabile e centro nevralgico della criminalità. Nel lavorarci però ho scoperto un mondo molto più complesso e variegato, dove bene e male non sono divisi con l’accetta. Con la comunità locale ci siamo incontrati su un progetto di finzione e di recita. Pur se con un approccio simile a quello del documentario, io ho fatto un film di finzione e, non citando nomi e cognomi, ho avuto una libertà inaudita nel raccontare certe cose. Ho scoperto un mondo diverso da quello che pensavo di trovare.
Diverso in che modo?
Intanto ho scoperto che non era vero che fosse impossibile fare un film all’interno di quella comunità. Ho scoperto che la gente è chiusa perché subisce un approccio aggressivo e volgare da parte di una stampa che cerca la spettacolarizzazione ad ogni costo e non vuole approfondire. Quando hanno capito che da parte mia c’era una approccio onesto e realmente curioso, ho trovato un’apertura straordinaria. E alla fine è stato più facile girare ad Africo che non a Milano.
Pur non essendo una vicenda vera, i fatti raccontanti nel film prendono spunto dalla realtà di quella comunità. Mentre il libro è ambientato negli anni ’70, tu hai scelto di portare la vicenda ai giorni nostri. Esiste ancora un elemento di attualità in questo tipo di storie?
Io sono interessato molto alla realtà dell’oggi e meno al passato e ho sentito quindi il bisogno di raccontare i giorni nostri, ma non ho portato la vicenda negli anni nostri, ne ho creata una nuova. E, sì, è una storia che è ancora realistica oggi. Questa è la particolarità di questa mafia che è una realtà divisa tra il mondo moderno e tecnologico di Milano o Amsterdam, il mondo della finanza, dei grandi cantieri, ma dall’altro lato è ancora legata al passato e a riti arcaici. Nel film c’è un confronto tra due tre generazioni diverse. C’è il ragazzino di 16 anni e c’è il vecchio. I vecchi sono ancora legati alle dinamiche di una volta e i giovani devono sottostare alla parola dei vecchi e alle loro regole. L’Aspromonte è una terra ancora selvaggia e dominata da riti e tradizioni. Per esempio i lunghi pranzi che metto in scena nel film sono pranzi a cui ho assistito quando ero lì.
Parlando di riti, c’è una scena curiosa in cui Luciano, il padre di Leo, raccoglie della polvere dal piedistallo della statua del santo nella chiesa abbandonata del paese vecchio, poi la mette in un bicchiere e la beve. Di che si tratta? Che significato ha quella scena?
Ad Africo ci sono ancora dei riti arcaici, precristiani. In Aspromonte c’è questa credenza che bere la polvere del santo faccia guarire dalle malattie, soprattuto mentali. Come un calmante. Poi nel film il personaggio, diviso appunto tra tradizione e modernità, non si fida totalmente e ci aggiunge anche le gocce vere.
E invece i giovani, che sono così tanto presenti nel tuo film?
Leo, il protagonista, è un ragazzo che ho trovato in Calabria, a Gioia Tauro, dopo aver fatto tante audizioni. È un personaggio che non c’era nel libro. Rappresenta la generazione di oggi che ho visto e sentito in quei luoghi. Quelli sono paesi compromessi dal punto di vista della giustizia, molta gente è in carcere per reati legati alla mafia, la disoccupazione è altissima. E c’è un passato che ancora grava su queste generazioni. Leo assomiglia a tanti dei ragazzi che ho visto trascorrere le proprie giornate al bar. Ad Africo ci sono quattro o cinque bar che restano aperti 24 ore su 24, come a New York: credo sia uno dei pochi posti in Italia dove ci sono bar aperti 24 ore. Ci sono le macchinette e i video poker che vanno avanti tutta la notte. Ci vedo una forma di perdizione e provo un po’ di compassione per questa generazione che non ha lavoro e vive con il mito sbagliato, quello criminale. Riempiono il vuoto con una mitologia del passato criminale delle loro famiglie che dovrebbe dare un senso epico a delle vite perdute. E Luciano teme che il passato della sua famiglia, del padre ucciso per un’altra faida, torni in suo figlio. Come poi succederà.
E hai avuto la sensazione che sia ancora così, che ci siano ancora le faide e le lotte tra famiglie criminali?
Lo dice la cronaca. Ci sono ancora dei momenti, come nel 2008 quando è riesplosa la faida a San Luca, che è a 20 chilometri da Africo, in cui le questioni legate al potere e al controllo riemergono. Sono famiglie che riescono a convivere in una finta pace per 20-30 anni, finché poi una scintilla, una sciocchezza fa riprecipitare la situazione. Spesso è un pretesto.
A proposito di potere, generalmente la narrativa e la cronaca sulla criminalità organizzata mostrano una connessione tra malavita e potere. Che invece nel tuo film non appare. Si è trattato di una tua scelta precisa o è Africo che è davvero così tanto enclave da essere estranea anche al potere politico?
In realtà essendo Africo una cittadina di provincia la politica lì non ha grande forza. C’è qualche riferimento alla politica nel film: a un certo punto nominano il sindaco e si capisce che è legato alla loro famiglia; poi Rocco a Milano gestisce un cantiere e l’edilizia non può non essere connessa col potere. È un discorso per cui ci sarebbe voluto un film a parte e che io affronto più per suggestioni che per vere sottolineature. Non volevo entrare troppo nella sociologia, volevo indagare nei personaggi. Ma gli elementi per sviluppare questo discorso ci sono: la politica è sempre connessa e compiacente, così come anche la “zona grigia” che nel film è raccontata soprattutto dal personaggio della moglie di Rocco che crede di essere fuori dal sistema criminale e invece in realtà lo foraggia e lo sostiene.
La moglie di Rocco a un certo punto dice “Io mi sento diversa, non sono come voi”. Di dove l’hai immaginata?
Del Nord. Non è calabrese e quindi si sente diversa. È un personaggio doppiamente ipocrita perché sa benissimo la storia del marito e della famiglia e pretende di non sporcarsi le mani.
Tornando al potere, l’autorità nel tuo film è rappresentata dai carabinieri. In una potente ed efficacissima scena la madre dei tre fratelli, quando i carabinieri vanno a casa a perquisire l’abitazione, senza dire una parola o degnare i carabinieri di uno sguardo, sputa a terra. È un’immagine che sintetizza con grande forza espressiva la sfiducia nei confronti dell’autorità tipica di alcune zone del Sud Italia. Hai avuto modo di notare questo atteggiamento nella gente del luogo?
Ovviamente non si può mai generalizzare, ma c’è questo sentimento trasversale di non appartenenza e di senso di abbandono da parte dello stato. Un po’ è il vittimismo meridionale, ma un po’ ha anche radici reali. Il sentimento diffuso è quello di uno stato lontano, invasore e sfruttatore. Che sia reale o percepito non è importante. Il carabiniere viene visto come uno che deve solo punire, che appare solo quando deve mettere le manette. La madre non ha la certezza della punizione e preferisce fare da sé: è una sottocultura che ha qualche radice di verità. Stando lì, molti mi hanno detto di quanto il potere sia compromesso con la mafia. Difficile capire chi sono i buoni e chi i cattivi. La gente è confusa e non ha la percezione che la giustizia venga dai rappresentanti della giustizia. Una cosa inquietante che è successa durante le proiezioni del film in Calabria è che spesso partiva un applauso in sala dopo la scena dello sputo ai carabinieri. Le prime volte che andavo giù per fare interviste e iniziare a capire il luogo, parlando con la gente, a volte anche persone colte cui chiedevo della storia del paese, mi raccontavano molte storie che risalgono ai Borbone, al pre-unità italiana e a volte, con un paragone un po’ assurdo, ma percepito come reale, la gente mi diceva: noi siamo un po’ come uno stato in guerra, come la Palestina. Questo nel film c’è anche nel dialogo tra nipote e zii a Milano in cui accennano a Garibaldi che per loro non è un eroe, ma un barbaro.
Trovi che, come molti dicono, in questa diffidenza verso l’autorità, si possano rintracciare le origini della criminalità?
Questa cosa può essere la base della forza della mafia che è sempre connessione tra potere e bande criminali locali. L’odiare lo stato a volte vuol dire anche odiare la mafia.
Nel film c’è anche un ampio uso del silenzio e dei non detti come codice di comunicazione. Come sei arrivato a questa scelta?
Stando lì tanti mesi ho imparato che c’è un modo di comunicare molto stratificato. Si dicono tante cose non dicendo quasi nulla. Soprattuto per i personaggi femminili abbiamo fatto un processo di sottrazione. Nella sceneggiatura la madre incitava i figli alla vendetta. Invece ci è sembrato più forte seguire il codice del silenzio, e del non detto. La madre, senza parlare ma con la sua esibizione teatrale del dolore, sembra esortare i figli a rispondere e reagire al torto ricevuto. O anche nella scena del pranzo in cui si tenta di sancire un’alleanza forte organizzando un matrimonio: il vecchio capofamiglia cerca di piazzare la nipote. Chiaramente è una questione di affari, ma non se ne parla, si fanno larghi giri intorno alla reale questione, c’è un sotto-testo. Questo continuo balletto di pranzi e incontri è un folklore che nasconde tanta furbizia.
Il film è andato molto bene in Italia, soprattutto al Sud. Cosa ti aspetti dagli Stati Uniti? Che tipo di pubblico pensi possa essere interessato a una storia del genere?
Io spero che questo film vada oltre il genere mafia. Rappresenta una lotta all’interno di una famiglia e quindi spero raggiunga l’archetipo della tragedia greca. Non il solito gangster movie, insomma. Per il mercato americano è un piccolo film ma sono felicissimo che stia uscendo nelle sale. Che un film italiano vada in sala negli USA è un grande risultato.
Come siete riusciti a farlo arrivare negli USA?
Il film è stato presentato a Venezia con grande successo, poi bissato al Toronto Film Festival e lì è stato venduto in 20 paesi.
Hai mai pensato di fare un film sugli italoamericani? Ti piacerebbe?
Non ci ho pensato ma in teoria, sì, mi piacerebbe. Però è una realtà che non conosco molto. Sono ancora legato agli stereotipi visti nei film e avrei bisogno di un bel lavoro di documentazione. Ma mi piacerebbe saperne di più.
Progetti per il futuro?
Sono in bilico tra due progetti e mi sono dato fino all’estate per decidere su quale buttarmi, ma non ne parlo per scaramanzia.
Prima volta a New York?
No, la conosco. La mia prima volta fu 1985, a sedici anni, durante un’estate caldissima.
Ti piace?
Molto, ha qualcosa che non posso spiegare. L’energia che trasmette la sento inalterata negli anni. E ogni volta che vengo devo fare almeno mezzora di passeggiata a Central Park, a testa in su per vedere i palazzi che spuntano da dietro gli alberi.
https://youtube.com/watch?v=D5gUDIIe67Y
Dove vedere Black Souls:
4/10: NYC – Angelika Film Center
4/17: Bay area; SF Landmark
4/17: Landmark Shattuck Berkeley
4/17: Christopher B Smith, San Rafael Center
4/17: Philadelphia, Landmark Ritz at the Bourse
4/17: DC, Angelika Film Center Pop Up & the Angelika Film Center Mosiac Fairfax,VA
4/24 : LA, Landmark’s Nuart theatre
4/24: Dallas, TX – Angelika Film Center & Angelika Film Center, Plano, TX
4/24: Austin , TX (Theatre tbd)
4/24: Sundance Cinemas, Seattle
Date TBD: Portland,OR, Cinema 21
4/24 Reading Cinemas , Tower theatre, Sacramento, CA
5/8 Reading Cinemas San Diego, CA Town Center Sq 14 & Gas Lamp 15
5/8 Miami, FL – Tower Theatre
5/8: Honolulu, HI – Kahala 8, Consolidated 8
5/22: Boston / Cambridge, MA, Landmark’s Kendall Square cinema.