Ci sono storie che vanno oltre i sogni, prendono la seconda stella a destra, e corrono via, veloci, verso la galassia Oltreoceano, dove talento e merito sono riconosciuti, evitando di impantanarsi in pianeti zavorra, statici da millenni, destinati a morire, governati da rassicuranti mediocri. Ogni riferimento non è assolutamente casuale, e serve per introdurre lui, Luca Tom(maso) Bilotta: giornalista poco più che trentenne con alle spalle un romanzo d’esordio, The Orange Hand, quasi esaurito e una serie TV in arrivo.
In America lo definiscono già “il Follett digitale” e forse non è poi così sbagliata come accezione. Non a caso, già mesi fa, era stato notato e voluto in USA da Albert Zuckerman della Writers House di New York, agente proprio di Ken Follett che, fra l’altro, Tom ha avuto l’onore di incontrare personalmente. Un miracolato? Può essere, di certo è l’ennesimo esempio di come si debba venire certificati in America per aspirare al riconoscimento in patria. Mais c’est l’Italie, mon amie…
Intanto Bilotta sta per diventare il primo regista di libri al mondo grazie ad Anatole, il suo secondo romanzo che uscirà con colonna sonora composta ad hoc dal Maestro Fabiani e sarà lanciato in contemporanea in USA, Canada, Inghilterra e Italia.
“The youngest international author of thriller novels”: recita la scritta di apertura del tuo nuovo sito internet. La solita esagerazione americana o è realtà al 100%?
“Non è un’esagerazione, diciamo che gli americani sono molto bravi a evidenziare aspetti mai considerati prima. Avete mai fatto caso all’età degli autori di thriller internazionali? Ecco, io no fino a pochi giorni fa. Ebbene, sono il più giovane!”.
Hai firmato da poco un contratto con la tua nuova casa editrice americana: per tre anni dovrai affrontare il mercato statunitense e lo farai con l'ausilio della tecnologia che promette di stupire. Vivrai tra Bergamo e New York, facendo concorrenza a Fabio Volo?

Foto: Maurizio Valentini
“Dovrò vivere un po’ qui in Italia e un po’ in America, in bilico, a seconda degli impegni. Per fortuna mi piace volare e vivo questa opportunità come un grande privilegio. Fabio Volo è un grande artista e un ottimo scrittore, ma i punti in comune si limitano all’orizzonte puntato su New York e la passione per la radio (lo invidio seriamente, è bravissimo). Come stile di scrittura, per fortuna non c’è possibilità di farci concorrenza. Non prendetela come un peccato di presunzione, è che mi definisco uno scrittore 2.0 e credo che nessuno finora abbia sperimentato una cosa simile nello scrivere un libro. Perché Anatole è un libro-film, capace di stuzzicare la fantasia del lettore amplificandone le percezioni sensoriali visive e uditive. Un viaggio bidimensionale. Più che scrittore, quindi, mi definirei un regista di libri”.
Quanto contano talento, testardaggine e fortuna nella tua storia?
“Molto. Sono tre ingredienti fondamentali. Io ho provato in Italia a presentare la mia idea, ma noi italiani purtroppo siamo troppo tradizionalisti, incapaci di cogliere le occasioni al volo. Mi è stato detto che il progetto era tecnicamente irrealizzabile, che ero un visionario. Eppure a giugno sbarcherà sui mercati internazionali: dove sta, allora, la verità? Anche Steve Jobs era un visionario, ma se fosse vissuto in Italia forse non avrebbe mai creato la sua Apple!”.
Eri un cronista sportivo di Bergamo, fino al 2012. Poi, la decisione di lasciare il lavoro, per dedicarti interamente al romanzo e alla scrittura di sceneggiature e libri storici. La domanda è: avevi uno zio d’America nascosto, hai vinto a Mega Turista per Sempre o sei, semplicemente, un folle visionario che ha deciso di seguire i suoi sogni, senza alcuna interferenza?
“Mi sarebbe piaciuto avere uno zio in America o vincere la lotteria. Credo proprio di essere un folle visionario e non amo fermarmi dinanzi alle difficoltà. Più mi trattano male o mi si chiudono le porte in faccia e più mi carico. Vi assicuro che hanno tentato in molti di mettermi i bastoni fra le ruote ma sono estremamente combattivo e preferisco i fatti alle parole. Ho lasciato il mio lavoro perché sentivo che non era la strada giusta per me, volevo fare qualcosa d’importante. Ho preso una decisione e l'ho fatto in modo netto, soprattutto perché si trattava del mio esordio, e già avevo un progetto letterario-informatico innovativo nel cassetto a cui credevo molto”.
Raccontaci la trama di The Orange Hand e lancia uno spottino per promuoverlo.
“The Orange Hand è una storia con 5 omicidi ed è anche la storia di un giornalista disoccupato a cui viene proposto un lavoro che non si può rifiutare: scrivere la biografia di un importantissimo quanto misterioso imprenditore. Da quel momento si troverà invischiato in un'avventura dal ritmo incalzante che parla di donne affascinanti, organizzazioni segrete e complotti internazionali. Se devo lasciarti uno spottino mi piace usare le parole di una delle prime recensioni ricevute: 'un vero thriller all'americana, scritto con la perizia stilistica che solo un italiano può possedere'”.
Di recente, in un’intervista, hai detto: “Esordire in Italia è difficile: se sei un pornodivo o un caso di cronaca tutti vogliono pubblicarti, per uno sconosciuto non c’è posto”. Ciò detto, tu che hai fatto, essendo lo “sconosciuto”?
“Mi sono rimboccato le maniche e ho pensato che l’America potesse essere un mercato capace di ascoltarmi. E così ho fatto. In Italia l’editoria è attanagliata dalla crisi e le scelte editoriali non si prendono più per qualità o meritocrazia, ma per numeri. Si prediligono gli autori stranieri perché più “sicuri”, essendo già noti i dati di vendita, e non creano invidie. Per fortuna ci sono alcune realtà editoriali che stanno iniziando ad invertire questa tendenza, ma siamo lontani anni luce dagli altri mercati. C'è ancora tanto da rottamare”.
“L’inizio di un’avventura, spesso, può cambiare le sorti del proprio destino” (The Orange Hand, pagina 17). Com’è cambiato il tuo?
“Da quando sono sbarcato in America quest’estate la mia vita è stata stravolta in positivo. E il mio destino ha cambiato orizzonti. Riscriverei quella frase un milione di volte, credo che sia una grande verità. Almeno per me lo è stato”.

Luca Tom Bilotta con Ken Follet. Foto: Maurizio Valentini
Ami la tecnologia – che porterà una vera innovazione nel tuo prossimo romanzo Anatole, ambientato dal proibizionismo ai ruggenti anni Sessanta, con tanto jazz. Sei su Twitter (dove in un mese hai raggiunto più di diecimila follower), e su Instagram e Facebook. Hai il sito nuovo. Segui i social di persona o hai un’agenzia che lo fa per te?
“Di persona. Perché il pubblico devi seguirlo in modo diretto, non asettico. Le persone sono stanche di essere trattate con distacco e potete chiedere a tutti i miei followers: rispondo a ogni lettore/lettrice che mi contatta. Anche per consigli su come diventare giovani scrittori all’estero. Anzi, uniamoci, così forse riusciremo a ribaltare questo mondo letterario avverso”.
Virginia Woolf ci ha lasciato una frase memorabile: "Una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere" (Una stanza tutta per sé, 1929). Pensi sia ancora valida oggi, e quali differenze ci sono tra l’essere uno scrittore e fare la scrittrice?
“Sì, assolutamente. Io invidio le donne, perché avete una marcia in più e riuscite a dare delle sfumature narrative incredibili nella metà del tempo. E meritate un luogo tranquillo per potervi concentrare. Vi definirei, usando un linguaggio tecnologico “multitasking”. Noi uomini, invece, facciamo le stesse cose nel doppio del tempo e sempre una cosa per volta. Nel mio caso direi: un uomo deve avere soldi e un iPad tutto per sé per poter scrivere”.
Per gli amanti di Ken Follett: raccontaci un aneddoto, non ancora pubblicato.
“In primis posso dire che è la persona più raffinata e cordiale che abbia mai incontrato nella vita. Un aneddoto? Viaggia sempre scortato da tanti collaboratori, ma soprattutto da un esagerato numero di valigie. Ora farò invidia a un bel po’ di donne: pensate al set completo di valigie di una nota marca parigina famosa per il suo monogramma. Ecco, moltiplicateli per tre…!”.