Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè… Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva? Dove fermarla?
(Marcel Proust, Dalla parte di Swann)
Scusate la lunga premessa, vi starete chiedendo cosa c’entrano le maddalene di Proust con Pietro Guccione, cercherò di spiegarvelo in questa breve introduzione a un pittore che ha scelto di rappresentare l’impossibile transizione tra cielo e terra, e facendolo ha sublimato il mare, quasi a voler ricordare che le cose hanno un anima, sta a noi saperla cogliere. Le emozioni che un quadro ci trasmette sono, quasi sempre, difficili da descrivere, certo le si racconta, ma la narrazione che prendiamo in prestito a un'altra forma artistica, risulta essere solo un pallido susseguirsi di parole prive di senso in mancanza dell’oggetto ammirato, e ciò che esso significa per noi. Ecco perché ho preso in prestito le magistrali parole di Proust, per cercare di trasmettere ciò che i miei occhi, la mia mente, il mio corpo tutto, provano nel contemplare un paesaggio di Pietro Guccione.
Non so se avete avuto il privilegio di trovarvi faccia a faccia con un suo quadro, in particolare uno di quei paesaggi marini che raffigurano la sua amata Sampieri, un luogo geograficamente definito, che attraverso la sua pittura si è ormai innalzato a topos. Sampieri da tanti anni rappresenta una sorta di laboratorio a cielo aperto, dove l’osservazione si mescola alla pratica trasgressiva, rivoluzionaria e silenziosa di uno dei generi più celebrati dalla pittura: il paesaggio. Ma attenzione, Guccione non dipinge i suoi paesaggi di getto, quindi le sue non sono impressioni, ma attente osservazioni di uno stesso fenomeno, scrutato in modo maniacale in un arco di tempo lunghissimo e poi trasposto sulla tela, nell’intimità del suo studio, luogo ove concentra, seleziona, disseziona, esalta, nasconde, ogni singola pennellata di quel blu che vira al verde, che si annulla nel bianco e che sfocia nel mare, il mare di Guccione, un mare di poetica trascendenza che trasale l’umano per entrare in quello spazio che l’occhio intuisce e l’uomo anela dall’inizio dei tempi.
Per la prima volta in vita mia i miei occhi sono riusciti letteralmente a palpare (sì, i mie occhi hanno toccato l’infinito) quella linea immaginaria che tutti cerchiamo di fissare quando guardiamo il mare, il punto esatto dove esso finisce per lasciare spazio al cielo, atmosferica rivelazione di un mondo che ci sfugge, che ci appare per poi sparire esattamente in questo punto impercettibile, inafferrabile, perché transizione ottica di colori simili che testimoniano quanto ciò che guardiamo in fondo non sia altro che il riflesso di ciò a cui aspiriamo.
Rieccoci con Proust e le sue maddalene, il blu di Guccione, e le sue infinite variazioni cromatiche, hanno la capacità di risvegliare tutte le emozioni nascoste, dimenticate, seppellite dalla montagna di immagini a cui ci confrontiamo ogni giorno, riaffiorano, libere di nuotare in quel mare atavico, ventimila leghe sotto i mari e poi spiccare il volo in quel cielo nitido portando con sé le cose non dette, per raggiungere quella fetta di luna in cerca della stella del piccolo principe, e dell'isola che non c'è.