Alla fine di un progetto più che decennale, gli Harvard Art Museums riaprono finalmente le porte nella innovativa struttura ideata da Renzo Piano e dal Building Workshop da lui diretto, presentata in anteprima il 6 novembre e accessibile a tutti i visitatori dal 16 novembre.
I tre musei harvardiani, Fogg Museum, Busch-Reisinger Museum, Arthur M. Sackler Museum, sono ora uniti in un unico edificio sormontato da una spettacolare vetrata, in una costruzione suggestiva e innovativa che, pur salvaguardando le specificità delle tre componenti, ne enfatizza l’intrinseca coesione. Come vedremo (e come potete in parte apprezzare dalle immagini qui pubblicate), questa è solo una delle molte novità apportate da Piano, tornato a Cambridge per celebrare l’apertura di un complesso museale che si avvia a rappresentare di diritto un altro tassello fondamentale nella sua straordinaria carriera.
Dopo il Pritzker Architecture Prize conferitogli dal presidente Clinton nel 1998, Piano si conferma una figura capitale per il panorama architettonico americano: basterà ricordare il rinnovamento e l’ampliamento della Morgan Library (2000-2006) e dell’Isabella Stewart Gardner Museum (2012), il palazzo del The New York Times (2000-2007), solo per citare alcuni dei suoi progetti più noti, in attesa inoltre dell’apertura della nuova sede del Whitney Museum of American Art, prevista per il 2015.
Sono giornate dense di impegni e di soddisfazioni per l’architetto e senatore a vita genovese, che ho avuto la fortuna di intervistare in occasione della presentazione della struttura alla stampa, dopo aver seguito una sua lecture alla Harvard Graduate School of Design.
Nel suo intervento alla Harvard Graduate School of Design ha parlato della necessità di instaurare un rapporto di fiducia e di “affetto” tra l’architetto e il proprio cliente. Come è stato per lei lavorare con e per Harvard?

L’architetto Renzo Piano con la collaboratrice de La VOCE, Chiara Trebaiocchi
Dal 1997, anno in cui si è iniziato a riflettere su questo progetto, ad oggi, ho sempre avuto un ottimo rapporto con il gruppo di Harvard e i suoi presidenti, a partire da Neil Rudenstine (presidente dal 1991 al 2001, nda), che in primo luogo l’ha desiderato e sostenuto, a Lawrence Summers (presidente dal 2001 al 2006, nda) e Drew Faust (attuale presidente, nda), entrambi sempre interessati alla realizzazione e sviluppo del nostro lavoro.
Un incentivo incredibile è arrivato con la nomina di Thomas Lentz in qualità di Director of the Harvard Art Museums, nel 2003. Per un anno ha osservato in silenzio le nostre idee e proposte per poi inserirsi attivamente nel nostro gruppo. Il suo contributo è stato fondamentale nel dare forma al museo come luogo quanto mai aperto alla comunità e allo studio. La collezione di Harvard, che raccoglie più di 250.000 opere d’arte, rappresenta un unicum eccezionale nel panorama dei college museums: non si è trattato solo di creare un nuovo contenitore per la conservazione e l’esposizione di questo patrimonio, ma bisognava salvaguardarne e rispettarne la finalità educativa, di studio e di ricerca.
Negli anni non sono ovviamente mancati piccoli intoppi o discussioni, anche accese alle volte, ma sempre costruttive e vitali. Abbiamo fortemente creduto in questo progetto, meritando la fiducia e l’affetto che Harvard ci ha effettivamente concesso.
Una componente fondamentale dell’edificio è il cortile interno (il Calderwood Courtyard) che vuole ricreare la struttura e la funzione di una tipica piazza italiana. In particolare, lei ha dichiarato di essersi ispirato alla piazza di Montepulciano, in provincia di Siena. Da dove nasce questa scelta?
Ho voluto seguire le orme di un architetto americano che agli inizi del secolo scorso si innamorò del palazzo rinascimentale Nobili Tarugi situato proprio nella Piazza Grande di Montepulciano: ne aveva voluto poi ricreare negli Stati Uniti la facciata, replicandola quattro volte a formare il quatrilatero caratteristico di molte piazze italiane. Ho ripreso questa idea, ripulendo e alleggerendo le facciate al fine di inserirle al centro del museo, dove rappresentano al contempo il punto focale della luce naturale che irrompe dal soffitto in vetro e il crocevia, il cuore pulsante di tutte le attività del museo. Tale “italianità” si traduce in un dialogo costante tra le diverse componenti all’interno dell’edificio, e tra questo e la realtà circostante, con una maggiore apertura e accessibilità grazie alla presenza di entrate sui due lati del palazzo (Quincy Street e Prescott Street). Il livello base del museo è infatti accessibile gratuitamente e vuole essere uno spazio di incontro o anche solo di passaggio tra le zone del campus e della città.
Nella sua presentazione ha fatto più volte cenno alla luce naturale come una parte costitutiva del museo. In che senso è possibile definirlo una light machine?
La luce rappresenta una componente necessaria del museo che abbiamo voluto valorizzare e integrare il più possibile. La struttura è organizzata su otto livelli, con in cima il laboratorio di conservazione e restauro, la zona che forse più beneficia della luce naturale che penetra dalla “glass lantern”. La cupola in acciaio e vetro è stata pensata infatti come la fonte vitale da cui si alimenta l’energia del museo: la luce illumina il cortile, l’art study center (che occupa il quarto piano, nda) e il laboratorio di conservazione (quinto piano, nda), conferendo una particolare luminosità anche alle gallerie. Per i restauratori, spesso relegati in spazi troppo nascosti, si tratta di un'importante conquista a riconoscimento del loro lavoro, tanto più considerando che il laboratorio è quasi interamente visibile al pubblico e agli studenti, per i quali sono state pensate aule di studio e osservazione.
La presenza di numerosi spazi aperti su grandi vetrate permette inoltre ai visitatori di orientarsi tra le diverse parti che costituiscono il museo e la zona circostante (il museo è situato vicino al Carpenter Center for the Visual Arts, realizzato da Le Corbusier, nda). In particolare si è cercata una continuità tra l’ambiente esterno e le sale dell’edificio, sfruttando il legno utilizzato per le nuove sezioni del museo (si tratta del cedro giallo dell’Alaska, un legno chiaro e molto leggero, nda) anche in alcuni punti delle gallerie.
La luce è ciò che conferisce universalità ai nostri lavori, è la stessa qui come in Italia o in Cina. L’architettura in tal senso deve essere globale, aperta all’universale, ma mai globalizzata o insensibile alla realtà locale in cui si inserisce.
Questo complesso museale è parte integrante delle strutture della Harvard University ed è stato concepito per essere un luogo di incontro tra l’arte e la collectività di studenti e professori, tra la ricerca artistica e la comunità circostante. Drew Faust l’ha definito, ampliando le sue parole, una “light and teaching machine”. Si tratta di una definizione che pone la missione educativa al centro dei suoi obiettivi. Crede che una tale attenzione sia presente anche nel panorama italiano?
È doloroso, ma putroppo in Italia manca ancora questo tipo di sensibilità. Negli Stati Uniti la società è abituata a investire moltissimo nell’educazione, grazie anche alla presenza di numerosi finanziatori privati; infatti, oltre ad Harvard, sono attualmente al lavoro anche su un altro progetto per il nuovo campus della Columbia University. In Italia, considerata anche la difficile situazione economica, tali investimenti – nel settore pubblico come nel privato – non sono considerati una priorità, secondo un’irragionevole idea che con la cultura e l’educazione non si possa mangiare. Non voglio dire che non si stia facendo nulla sul piano dello sviluppo culturale, ma non è di certo abbastanza. In America c’è un maggiore dialogo tra la società e i luoghi educativi o culturali, in cui si investe e da cui si può ricavare molto.
Da questo punto di vista, essendo anche un senatore a vita della Repubblica, cosa pensa dell’attività del governo Renzi?
Spero fortemente che Renzi, dopo aver affrontato la necessaria questione del lavoro, metta la cultura al centro della propria attività di governo. Finora, senza essere catastrofici, non c’è molto da giudicare. Mi sembra però che Renzi stia mostrando una certa attenzione a queste tematiche, soprattutto per quanto riguarda la scuola primaria. Anche il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, sta mostrando una giusta sensibilità, ad esempio con la proposta di defiscalizzazione delle donazioni a favore delle opere d’arte e del patrimonio artistico (si tratta del decreto Art Bonus, approvato alla Camera nel maggio 2014, nda). Riconosco comunque che la politica ha i suoi tempi: bisogna avere fiducia che la questione della cultura e dell’educazione venga affrontata finalmente con progetti e riforme lungimiranti.