Non ama essere definita la “paladina del giornalismo sui diritti umani e sulle minoranze etniche”, perché una certa retorica del giornalismo a lei non piace. Preferisce piuttosto rimanere con i piedi per terra e la testa in alto. Giornalismo sociale che si incrocia con gli ideali di giustizia e difesa delle minoranze. Lei, Raffaella Cosentino, per prima ha sfondato un muro: entrare con una telecamera nei Cie, centri di identificazione ed espulsione, per raccontare la dura realtà in cui sono costretti a vivere gli immigrati. E lo ha fatto con la passione della giornalista che non accetta compromessi di fronte alla verità.
Lascia la sua terra, la Calabria, per Roma e poi Londra dove studia giornalismo. Collabora con l’agenzia di stampa Redattore Sociale, il sito di inchieste RE – Repubblica – Espresso, Repubblica.it e in passato anche con l’edizione cartacea di La Repubblica e Il Venerdì di Repubblica, il Corriere.it, Narcomafie, l’Agenzia Giornalistica Italia (AGI), Radio Città Futura di Roma, Il Manifesto e la cronaca locale del quotidiano free press E Polis.
Nel 2011, la sua inchiesta per Repubblica sui migranti reclusi nella tendopoli-Cie di Palazzo San Gervasio, viene rilanciata anche dalla BBC e fa il giro del mondo vincendo anche il secondo premio per il giornalismo d’inchiesta Gruppo dello Zuccherificio.
Il giornalismo per Raffaella significa reportage, inchieste, documentari, video sulle mafie, le minoranze etniche, microfono e telecamere che parlano di uomini, di dignità umana violate.
Numerosi i premi che hanno riconosciuto la sua libertà di informazione, il suo lavoro e i documentari che oltrefrontiera sono stati selezionati in rassegne importanti. Come l’ultimo film documentario girato insieme alla polizia di frontiera e all’interno dei centri di identificazione e di espulsione italiani di cui è coautrice e coproduttrice : EU 013 L’Ultima Frontiera. Ogni giorno, con taccuino e telecamera, racconta questo mondo con coraggio e dignità grazie anche alla sua fede buddhista . Oggi la sua battaglia è anche a difesa della categoria dei freelance, penalizzati dall’ultimo accordo sull’equo compenso. Secondo la sua filosofia di vita, questo palcoscenico con tutti i suoi ostacoli è il luogo migliore in cui fare la propria rivoluzione umana realizzandosi appieno come esseri umani. Non per diventare famosi, ma per diventare se stessi.
Giornalista, documentarista, ma soprattutto freelance. Cosa rimarrà dei freelance dopo l’ultimo accordo sull’equo compenso?
Sarebbe riduttivo vedere l’accordo che è stato giustamente ribattezzato iniquo compenso solo come un problema interno ai giornalisti e che riguarda precari e freelance. A essere minacciata è la libertà di stampa, baluardo della tenuta democratica delle istituzioni. Il governo ha messo la sua firma, per mano del sottosegretario all’Editoria Luca Lotti (32 anni), su un pezzo di carta che minaccia la libertà di informazione in un modo così grave e mai visto che fatico a prevederne le conseguenze. Ma a differenza di quanto accaduto con i conflitti di interesse di Berlusconi e varie leggi bavaglio e liberticide, l’opinione pubblica non sa e non saprà quello che è successo. Come giornalisti possiamo diffondere queste notizie solo sui social network perché pochissime testate ci hanno dato spazio e la tv zero. Il motivo per cui non riusciamo a farci sentire è anche che il responsabile dell’iniquo accordo in questo caso è il sindacato unico dei giornalisti, la Fnsi, guidato da un numero eccessivo di anni dallo stesso gruppo dirigente che fa capo a Franco Siddi. Inoltre l’accordo sancisce un principio paradossale e pericolosissimo per tutti i lavoratori: più lavori e meno ti pago!
Oltre al giornalismo, hai fatto tua la battaglia contro lo sfruttamento dei freelance nel mondo dell’editoria.
Per quanto riguarda i freelance, posso parlare a titolo personale. Non ho mai guadagnato 4 centesimi a riga, eppure ho denunciato questa cosa nell’eBook Quattro per Cinque. Quattro centesimi per cinque pallottole (edizioni Terrelibere.org). Era il 2010 e la retorica sulle minacce ai giornalisti in un’Italia infestata dalle mafie si sprecava. Ma in pochi raccontavano che per la libertà di informazione pericoloso quanto le minacce è l’editore che ti sfrutta. Spero di non guadagnare mai 6 euro ad articolo, come sancisce l’accordo truffa per un lancio di agenzia. Tuttavia non posso accettare questa cosa perché ho scelto di fare la giornalista a prezzo di tanti sacrifici proprio perché la libertà di stampa per me è il bene più importante. Con il “comitato 8 luglio” siamo arrivati a entrare nel nostro sindacato e contestare con forza i nostri colleghi e sindacalisti. Non sono felice di questo, ho partecipato con infinita tristezza. Questa frattura costituisce la vittoria degli editori sui lavoratori dell’informazione, con le responsabilità della Federazione nazionale della stampa. È ovvio, comunque, che questo accordo abbasserà il potere contrattuale di tutti. Oltre al sit-in, tanti colleghi non solo precari e freelance, ma anche membri dei comitati di redazione, hanno dato vita a diverse iniziative: una conferenza stampa alla Camera con la presentazione di un’interpellanza parlamentare, contestazioni alle conferenze stampa in cui l’Fnsi presentava gli accordi siglati, la richiesta di un referendum tra giornalisti su contratto e iniquo compenso, petizioni online, tweet bombing sugli account Twitter di Siddi, Lotti e del premier Matteo Renzi.
Cosa prevede nei dettagli l’accordo?
Un accordo sul lavoro autonomo stipulato tra le parti, sindacato unico dei giornalisti (Fnsi) ed editori (Fieg), che diventa legge dello Stato e legalizza lo sfruttamento: 3 mila euro l’anno lordi, 250 al mese. Lo chiamano “equo” compenso, con il placet del governo nella persona del sottosegretario all’Editoria Luca Lotti. Per i giornalisti precari e freelance si tratta di un compenso “iniquo” e di un accordo truffa. È stato svenduto il lavoro dei giornalisti, rendendoli più ricattabili, sfruttati e licenziabili. A essere minacciata è la libertà di stampa, baluardo della tenuta democratica delle istituzioni. Grazie a questo accordo, è legge dello Stato che un giornalista non è sfruttato se: guadagna 20 euro per un articolo di quotidiano (di almeno 1.600 battute), 6 euro e 25 per un lancio di agenzia, 250 euro al mese e 3.000 euro lorde l’anno per 144 articoli l’anno. Non conta l’argomento, può essere un’inchiesta sulle mafie o l’inaugurazione di un teatro, e nemmeno la testata: “quotidiano” è il Corriere della Sera o l’Eco di Canicattì. È legge dello Stato il principio assurdo che più si lavora meno si guadagna: fino a 144 articoli in un anno la paga equa è 250 euro al mese, da 145 a 288 articoli è altrettanto equo essere pagati il 60% di 250 euro e da 289 a 432 articoli, il 50% di 250. È stato infatti introdotto per legge un riduttore dei compensi. Ma se lo sfruttamento legalizzato è chiamato “equo compenso”, il “riduttore” lo definiscono il “moltiplicatore”. È legge dello Stato scrivere più di un articolo al giorno per un giornale (432 articoli l’anno) lavorando come un dipendente, ma senza contratto e senza essere assunti. Come si fa a dire che questo è lavoro autonomo? Per queste cifre, chi lavora per un’agenzia o per una testata sul web dovrà produrre 40 segnalazioni/informazioni anche corredate da foto/video in un mese e la sua paga sarà considerata “equa”. Se il lavoro viene ordinato, ma non pubblicato può non essere pagato. Se il pezzo viene tagliato dalla redazione, sotto le 1.600 battute l’accordo non si applica e si può essere pagati ancora meno. Naturalmente nessun rimborso spese se non concordato in precedenza. Un collaboratore può essere mandato via dalla testata senza alcun problema e nessuna tutela per il giornalista.
Chi ci guadagna in tutto questo?
L’accordo sull’equo compenso è stata la moneta di scambio per arrivare a firmare il rinnovo del contratto nazionale per i giornalisti dipendenti. Ma anche loro perdono clamorosamente. L’accordo sul lavoro autonomo apre la strada all’espulsione in massa dei dipendenti dalle redazioni. Perché a parità di quantità e qualità di lavoro svolto, un giornalista autonomo costa cifre ridicole rispetto a un contrattualizzato. Inoltre il contratto per i dipendenti, firmato subito dopo l’accordo sull’equo compenso, sancisce un’occupazione precaria e sottopagata, introducendo nuove tipologie di assunzione, come il salario di ingresso, che abbassano le tutele dei giovani, quelle di chi è rimasto senza lavoro e, di riflesso, anche quelle degli occupati. Si concedono agli editori sgravi retributivi e contributivi anche per le eventuali assunzioni a tempo determinato, senza che sia garantita una successiva stabilizzazione. Si introduce la figura dell’apprendista che contrasta con quella del praticante stabilita dalla legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti, prolungando la retribuzione ridotta fino a 36 mesi e riducendo ulteriormente anche quella successiva che resterà quella del Redattore Ordinario con meno di 30 mesi per un altro triennio, sempre che il contratto sia trasformato a tempo indeterminato. Secondo l’Associazione Stampa Romana “queste norme serviranno da paravento a una gigantesca sanatoria di posizioni illegali che verranno sanate a danno dei professionisti fino ad oggi sfruttati selvaggiamente”.
Come si è arrivati a questo? Qual è la ratio della legge?
Il percorso con cui si è arrivati a tutto questo non è stato democratico, né trasparente. E dopo la firma, assistiamo al paradosso che il sindacato dei giornalisti non dà spazio al dissenso e alle posizioni contrarie. La ratio della legge sull’equo compenso, promulgata a dicembre 2012 voleva proteggere i tantissimi giornalisti non assunti, oltre il 60% degli iscritti all’Ordine, dallo sfruttamento. Il compito di stabilire la soglia dell’equo compenso, sotto il quale si configura lo sfruttamento e la perdita dei contributi pubblici all’editoria, spettava alla Commissione governativa presieduta dal sottosegretario Luca Lotti, il presidente Fnsi Giovanni Rossi, il direttore generale Fieg Fabrizio Carotti, il presidente Inpgi Andrea Camporese e il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, unico ad avere votato contro. Il risultato raggiunto rende i giornalisti autonomi potenzialmente ancora più poveri. A chi dice che questo è un compenso minimo o un passo avanti per gli autonomi, chiediamo di lasciare il posto e il contratto che hanno e di andare a lavorare da autonomi per queste cifre. Anni di lotte, denunce, proteste e sit in sono stati bruciati in una notte, quando il 18 giugno scorso, Fnsi e Fieg hanno siglato l’accordo, recepito il giorno seguente nella delibera sull’equo compenso da parte della commissione presieduta dal sottosegretario Lotti. Questo è un pessimo accordo che stabilisce un pericoloso precedente e lede la dignità di tutti i lavoratori. I giornalisti che lavorano da collaboratori esterni delle redazioni non hanno potuto impedirne l’approvazione. I loro rappresentanti all’interno della Commissione nazionale freelance e della commissione contratto dell’Fnsi non hanno avuto voce in capitolo, se non la possibilità di dissociarsi a cose fatte. Le trattative con gli editori sono state condotte sempre da un gruppo “ristretto” comprendente il segretario dell’Fnsi Franco Siddi e il presidente Giovanni Rossi. La Fnsi è il sindacato unico dei giornalisti italiani, il solo soggetto legittimato a sedersi al tavolo con gli editori. I giornalisti non possono scegliere un’altra sigla sindacale. Va da sé che Fnsi gestisce in questo momento cruciale un potere enorme ed esclusivo. La Fnsi non rappresenta il 60% dei giornalisti italiani. Non una casta, ma lavoratori non dipendenti che lavorano da freelance oppure con contratti cococo o partite Iva spesso finte, che camuffano veri e propri rapporti di lavoro dipendente. E chi potrà lavorare a queste cifre? Solo chi fai il giornalismo per hobby o chi è ricco di famiglia. Un colpo mortale è stato assestato alla libertà di informazione in Italia. Il coltello dalla parte del manico forse l’avevano gli editori. Ma a spingere per pugnalare più forte è stato il nostro cosiddetto “sindacato”.
Ti occupi soprattutto di immigrazione, diritti umani. Il tuo è un giornalismo sociale e di inchiesta. Quali sono le notizie, le storie che senti di dover raccontare?
Sono buddista, proprio all’inizio del mio percorso professionale ho aderito alla Soka Gakkai, un’associazione buddista laica giapponese e grazie all’esempio del mio maestro, Daisaku Ikeda, ho deciso che volevo occuparmi di diritti umani. Mi sono subito resa conto che non serviva andare in guerra. Non aveva senso andare lontano, quando le violazioni dei diritti umani, purtroppo, sono quotidianamente intorno a noi in Italia e in Europa. Questa mia decisione mi ha portato in modo quasi naturale, a occuparmi di immigrati irregolari, rifugiati e Rom, che sono le minoranze più discriminate nel nostro Paese. Ho iniziato a lavorare con un’agenzia di stampa specializzata nel sociale. Mi pagavano 22 euro ad articolo. All’inizio guadagnavo davvero una miseria, tanto da fare la giornalista di giorno e la pony express per una pizzeria di sera. Nel 2011 la sponda sud del Mediterraneo è in fiamme. I giovani della primavera araba riescono a sconfiggere tiranni che sono al potere da un quarto di secolo. Tanti di quei rivoluzionari arrivano a Lampedusa. Li abbiamo tanto celebrati finché restavano in Africa, ma quando approdano in Europa, per la nostra società sono solo dei “clandestini”. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni emana una circolare segreta con cui vieta ai giornalisti l’accesso a tutti i centri dove vengono portati i migranti salvati in mare. Questa censura per me rappresenta un grave abuso di potere. Trovo degli avvocati bravissimi, Andrea Saccucci e Anton Giulio Lana (quelli che hanno ottenuto la condanna dell’Italia per i respingimenti in mare da parte della Corte di giustizia europea) con cui fare ricorso in tribunale. L’azione legale è stata supportata finanziariamente da Open society Foundation. Ma succede che un prefetto, quello di Potenza, si sbaglia e mi autorizza a entrare in un centro a Palazzo San Gervasio. Mascherato da centro di assistenza, trovo in realtà una gabbia infernale, sotto un sole cocente, in mezzo al nulla, in cui sono rinchiusi 60 ragazzi tunisini che non hanno neanche potuto parlare con un avvocato. Dopo tanta fatica per venire in Italia con un viaggio pericolosissimo, dovranno essere rimpatriati in Tunisia, ma nessuno gliel’ha detto. I ragazzi rinchiusi mi danno un video che mostra le violenze subite. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta Guantanamo Italia sul sito di inchieste di Repubblica.it ed Espresso (RE Le Inchieste) il Ministero è costretto a chiudere il centro e attualmente è ancora chiuso. Un anno dopo vincerò anche il ricorso al Tar del Lazio che dichiarerà la circolare del Ministro illegale, affermando il principio che “la stampa è il cane da guardia delle istituzioni democratiche”. Per questa azione, nel 2012 mi hanno chiesto di ritirare il premio Giuntella per la libertà di informazione a nome della campagna LasciateCIEntrare, che da allora, grazie ad attivisti instancabili, continua a entrare nei Cie, a portarci i parlamentari e a chiederne la chiusura. La magistratura ha aperto delle indagini per maltrattamenti dopo i miei servizi. Su questo fronte ho seguito l’esempio del bravissimo Gabriele Del Grande, al quale va la mia gratitudine, ma sento anche di avere aperto una strada. In tanti mi hanno detto che per lavorare come giornalista dovevo lasciare perdere i diritti umani e occuparmi di politica, economia o gossip. Ma per me non esiste un argomento più importante del rispetto della dignità dell’essere umano.
EU 2013, l’ultima frontiera è il primo documentario autorizzato sui CIE e sulla vita nelle viscere di questi centri. Com’è stato affrontare a livello umano e professionale l’impatto dei centri?
Nel 2012 ho ottenuto un finanziamento dal fondo per lotta alla xenofobia e alle discriminazioni di Open Society per realizzare un documentario. Ci ho lavorato con Alessio Genovese, dando lavoro a una decina di persone, che soddisfazione! Abbiamo ottenuto le autorizzazioni speciali del Ministero per girare all’interno dei CIE, direttamente dall’allora Ministro Cancellieri. Le autorizzazioni, più permissive di quelle normalmente concesse ai giornalisti, ci hanno messo davanti a una serie di grossi paletti. Di fatto abbiamo avuto poche ore per entrare nei centri, individuare i nostri protagonisti e decidere direttamente sul campo come svolgere la storia. È stata l’esperienza data dalla conoscenza diretta di queste strutture e il desiderio di trasmettere l’angoscia e il senso di vuoto che tortura gli esseri umani rinchiusi a permetterci di fare un buon lavoro. I migranti hanno collaborato pienamente e insieme abbiamo dato vita a un atto rivoluzionario: fare qualcosa di creativo dentro una gabbia soffocante che annienta l’essere umano. Il documentario è uscito lo scorso dicembre. Pur essendo una produzione indipendente, è stato visto in Francia, Olanda e Romania e abbiamo fatto 50 proiezioni in tantissime città italiane da Trieste a Palermo, grazie a una rete popolare organizzata dal basso. Siamo stati scelti da festival molto importanti, come quello di Rotterdam. Da freelance si possono portare avanti progetti bellissimi davvero in libertà, anche se la fatica è stata tanta, essendo una produzione indipendente. Stiamo ancora cercando con le nostre poche forze una distribuzione cinematografica e televisiva per l’Italia e per l’estero. La linea artistica ed editoriale l’abbiamo scelta in totale autonomia, sperimentando come applicare il linguaggio cinematografico al reportage e all’inchiesta permetta di passare dal giornalismo alla produzione di cultura. Il documentario associa i Cie ai controlli di frontiera, perché i Cie sono un’estensione della frontiera in cui si rimane intrappolati per anni, senza via d’uscita a parte la fuga. La prima idea mi è venuta proprio pensando agli Stati Uniti e al confine con il Messico. I Cie italiani, centri di identificazione e di espulsione, sono centri in cui i cittadini stranieri senza permesso di soggiorno vengono rinchiusi fino a un anno e mezzo per essere identificati e rimpatriati. Ma in realtà non vengono né identificati, né rimpatriati. I Cie sono galere violente in cui si viene puniti senza avere commesso reati, solo perché si è emigranti. Li combatto perché annientano l’essere umano, sono istituzioni totali come i lager e i manicomi, coperti dalla censura in tutta Europa. Sono immagini che l’Unione europea non vuole vedere e non vuole siano viste. Per me lo “straniero” non esiste. Siamo tutti esseri umani e sogniamo una vita migliore. Anche il mio maestro Ikeda, nella proposta di pace inviata all’Onu nel 2014 come ogni anno, dice che la tendenza a limitare la libertà della popolazione e ad anteporre la sorveglianza ai diritti umani, in nome della sicurezza nazionale, porta a opprimere altre persone. E questo è inaccettabile.
Tra new media e old media, dove sta andando il giornalismo italiano?
C’è grande fatica a capire che il presente sono i new media. Ancora aprono quotidiani solo cartacei, secondo me è una follia. Il segretario dell’Fnsi ci ha detto che “sul web lavora chi ce la fa” e che “sul web non ci sono denari per pagare”. Questa è la testimonianza che perfino il sindacato, oltre che gli editori, non ha capito cosa vuol dire lavorare da freelance, sul web, producendo approfondimenti e contenuti di qualità. Questo è ciò che faccio io. Possiamo dire che sono per davvero un fantasma, io per il mio sindacato non esisto, non faccio testo. Invece per la vasta comunità di lettori online che mi segue anche sui social network e riconosce la qualità, esisto eccome. Pensiamo al progetto visionario di Io sto con la sposa e al crowdfunding di quasi 90mila euro in due mesi. Questo è il presente, ma si stenta a capirlo. Il danno è per tutti. Con l’informazione online che rischia di peggiorare la già pessima offerta televisiva, i telegiornali inguardabili e i quotidiani che non compra più nessuno. Credo ci siano tante capacità, professionalità e idee, ma come per il resto in Italia, lo spreco dei talenti la fa da padrone.
Giornalisti privilegiati e freelance sottopagati. Colpa di un’offerta eccessiva di gente disposta a lavorare gratis o di una politica editoriale miope? O meglio, di editori sfruttatori?
Entrambe le cose. Si tratta di un modello di produzione. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro nero. Il sistema dei media non è casto. Purtroppo chi lavora gratis o sfruttato in attesa del miraggio di un’assunzione non sta dando valore al proprio lavoro. Si auto-squalifica. Costituisce così una sorta di esercito di riserva che dopo un po’ si stufa e molla. Ma ci sono le retrovie pronte a prenderne il posto per altri due anni e così all’infinito. La troppa retorica che circonda la professione giornalistica contribuisce a tutto questo perché non viene raccontata la verità sul modo di produzione delle notizie in Italia. Per questo la nostra battaglia, anche comunicativa, è così importante.
Non ti sei mai chiesta se a volte sarebbe stato più facile andare via e mollare tutto?
Certo, me lo sono chiesta come tutti. Ma, sempre grazie alla spinta interiore che mi dà il Buddismo, io mi rifiuto di essere sconfitta. Credo fermamente che se sono qui e ora, ci sono per dare il mio contributo a cambiare le cose. Dice Nichiren Daishonin, il fondatore di questa corrente buddista giapponese, che “non esistono terre pure e terre impure di per sé, la differenza sta nella bontà o malvagità della nostra mente”. Secondo la mia filosofia di vita, questo palcoscenico con tutti i suoi ostacoli è il luogo migliore in cui fare la propria rivoluzione umana realizzandosi appieno come esseri umani. Non per diventare famosi, ma per diventare se stessi. Forse un giorno partirò, amo conoscere realtà nuove e stimolanti, ma non partirò da sconfitta. La mia non sarà una fuga dal mio Paese, che amo. Tanto che a 24 anni sono emigrata a Londra, ma dopo un anno sono rientrata. Ne sono passati dieci da quando sono in Italia e se stiamo qui a fare questa intervista vuol dire che ho saputo creare valore nel mio Paese.
Chi in Italia vuole fare del giornalismo indipendente e di inchiesta, a quali ostacoli va incontro?
I bassi compensi e un mercato editoriale ristretto dominato da pochi soggetti, questo vizia fin dall’inizio la libera trattativa fra il freelance e le testate. È noto che l’Italia è un paese parzialmente libero dal punto di vista dell’informazione. Un freelance può proporre a più testate, ma poi deve accettare i compensi proposti da direttori e caporedattori. Al massimo può rifiutare e non pubblicare, ma difficilmente riesce a rilanciare l’offerta economica. Ci si sente dire ti paghiamo con la visibilità. Personalmente credo di avere anche spesso storie interessanti per un pubblico internazionale, ma è difficile avere i contatti per bypassare i confini. Le esperienze che ho avuto con i corrispondenti in Italia di alcune testate internazionali finora non hanno portato a nulla e sono state anche demotivanti. Poi c’è il grosso problema che se un giornalista dipendente di una testata pubblica uno scoop indigesto per l’editore o per i finanziatori della testata, difficilmente potrà essere mandato via, essendo un garantito dai contratti e dalle norme. Un collaboratore può essere buttato fuori dall’oggi al domani e non può nemmeno dimostrare di essere stato censurato. Questa è la debolezza più grave su questo fronte. Inoltre, in caso di querele temerarie, si deve affidare al buon cuore dei suoi capi e dell’azienda, che non hanno obblighi di tutelarlo e difenderlo, ma lo fanno se vogliono e se si mettono una mano sulla coscienza. Il problema è proprio questo. Il 60% dei giornalisti italiani lavora in una totale assenza di regole, è affidato al buon cuore del capo di turno, con tutto ciò che questo comporta. È democratico tutto ciò? Personalmente devo davvero ringraziare l’avvocato Andrea Di Pietro che, grazie a un’esperienza unica in Italia e totalmente innovativa, mi ha seguita gratuitamente quando sono stata minacciata di querela da alcuni enti gestori dei Cie per delle inchieste. Si tratta del progetto dello Sportello antiquerele temerarie organizzato dall’associazione Stampa Romana (che ha espresso forte dissenso e contrarietà rispetto alle scelte del resto del sindacato).
Il giornalismo al Sud soffre due volte, secondo te?
Dipende, il Sud non è tutto uguale. Pensiamo alla bella esperienza di Fanpage.it per esempio. È una testata napoletana davvero innovativa e di qualità, in cui lavorano molti giovani in gamba. Ci sono situazioni davvero soffocanti, secondo me a causa della cappa mafiosa sulla politica e sulla società come in Calabria. È la mia regione d’origine e lì è tutto ingessato in ogni ambito, per cui anche sul fronte informazione è molto difficile muoversi. Voglio segnalare come bella esperienza la testata online Il Dispaccio di Reggio Calabria. Ma in altre regioni meridionali esistono spazi di manovra. Non si può leggere una realtà vasta e variegata soltanto con l’etichetta Sud altrimenti si cade nello stereotipo.