La letteratura è una risorsa, come lo sono il cibo, la moda, il design. Ma mentre questi settori hanno fatto del made in Italy un brand apprezzato all’estero, l’italianità nei libri stenta a farsi conoscere fuori dai confini nazionali (e spesso anche all’interno dei confini nazionali, considerato quando poco leggono i nostri connazionali). Ma il settore dei libri può crescere e può farlo anche all’estero. In occasione del Book Expo America dove l’Italia era presente con un’ampia area espositiva, abbiamo parlato dell’internazionalizzazione dell’editoria italiana con Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE).
Da addetto ai lavori che ha sicuramente il polso della situazione, come vede il mercato del libro italiano?
Non benissimo. Negli ultimi due o tre anni c’è stata una caduta del mercato del libro non compensata dal mondo del digitale, dal momento che l’e-book rappresenta solo il tre per cento del fatturato e non è cresciuto come si sperava. Se si pensa che i maggiori editori ormai escono su cartaceo e in digitale in contemporanea il tre per cento è davvero poco.
A cosa è dovuta questa situazione?
L’Italia non è ancora uscita dalla crisi. Ci sono dei timidi segnali di ripresa ma non nel nostro campo. L’italiano non ha ancora deciso che può ricominciare a spendere nei libri che da noi sono considerati tradizionalmente qualcosa di non necessario. Per farsi un’idea basta pensare che il 50 per cento della popolazione di potenziali lettori italiani non legge nemmeno un libro all’anno. Rinunciare ai libri non viene percepito come una rinuncia a qualcosa di essenziale. Poi c’è una parte sociologica del problema legata all’avvento delle nuove tecnologie che hanno portato nelle case un approccio al tempo libero diverso dal passato. È un approccio basato sul multitasking che non si coniuga bene con la filosofia del libro che è, al contrario, immersione. Noi puoi leggere un libro e contemporaneamente fare altre cose. Gli strumenti più facili hanno tolto spazio agli strumenti più difficili.
Sul fronte della vendita dei diritti dei diritti di traduzione italiani all’estero l’Italia non eccelle. Come sta andando? C’è qualche segnale di cambiamento?
C’è una tendenza positiva a livello internazionale che si riflette anche sul mercato italiano ed è quella della crescita del settore dei libri per ragazzi. Si tratta dell’unica fetta dell’editoria che non sta perdendo lettori. E i libri italiani per ragazzi stanno riuscendo a ottenere una sempre maggiore e migliore accoglienza sul mercato straniero. Nell’ambito dei libri per ragazzi rientrano i libri gioco e libri che sono un po’ più spostati verso la narrativa. In questo settore i libri non vengono comprati direttamente da chi li legge, ma dai genitori per i figli. E il fatto che le vendite non siano in calo dimostra che evidentemente i genitori riconoscono il valore dell’oggetto libro ma poi per se stessi non li comprano. Questo fenomeno può essere letto in due possibili chiavi: una più positiva che ci dice che il genitore non ha soldi e allora se deve rinunciare a qualcosa rinuncia a qualcosa per se stesso e non per i suoi figli, e una negativa secondo cui, rispetto ad altri possibili passatempi per bambini, i libri hanno un prezzo contenuto e quindi sono una scelta più facile.
E i rapporti con i mercati esteri come vanno?
In Italia abbiamo un mercato editoriale in cui i grandi gruppi rappresentano il 50 per cento mentre la restante metà è rappresentata da una miriade di medi, piccoli e piccolissimi editori. I grandi hanno continui rapporti con l’editoria straniera. Noi per esempio, in Italia, traduciamo moltissimi libri americani , siamo il paese leader in traduzioni dal Nord America. Ma manca la conoscenza dei piccoli editori americani e viceversa. Per questo servono fiere come il BEA.
Ci sono scambi, a livello estero, tra piccoli e grandi editori?
È ancora raro che il grande editore attinga dal piccole editore. Semmai lo usa come cartina tornasole: se un libro pubblicato in un altro paese da un editore sconosciuto all’improvviso inizia a vendere tantissimo, allora il grande editore si interessa. Allo stesso tempo, guardare ad altri editori aiuta a valutare un insuccesso, per capire se è stato causato da un crisi generale del settore o di un genere o da mosse sbagliate dell’editore.
E nel mondo della piccola editoria? Esiste uno scambio tra piccoli editori a livello internazionale?
Tra i piccoli, sì, esiste uno scambio. Alcune piccole case editrici hanno degli equivalenti di riferimento in altri paesi di cui condividono la linea, lo stile e di cui si fidano: si crea una sintonia sul prodotto e si riescono ad avviare scambi anche costanti sul lungo periodo.
Ma questi scambi riescono poi a portare la narrativa contemporanea italiana all’estero?
L’italiano è una lingua poco conosciuta e quindi non ci sono nemmeno poi tanti scout in giro per il mondo. E al di là delle grandi firme, che ormai vanno in autonomia, è difficile riuscire a far muovere i nomi nuovi. Di solito se i diritti di un libro vengono comprati in un paese poi gli altri seguono. C’è un po’ la tendenza a far fare da cavie agli altri e guardare come va prima di rischiare. C’è un gioco d’attesa. E grazie a Internet è facile sapere cosa e dove è stato tradotto e come sta andando. Così capita che un grande best seller sia facilmente un best seller a livello mondiale mentre un insuccesso resta un insuccesso nel paese d’origine perché nessuno ha intenzione di rischiare.
Quali sono le chiavi per un libro per avere successo all’estero?
Essenzialmente due: la trama e la qualità letteraria. Ma in tutti i paesi queste due qualità rappresentano due tipologie diverse di editore: quello che punta tutto sulla trama e quello che invece cerca e valorizza la qualità letteraria. Nessuno raggiunge i livelli di vendite di Dan Brown con libri di grande qualità letteraria: Saul Bellow non vende quanto Ken Follett. Poi ci sono ovviamente delle eccezioni, come per esempio il caso anomalo de La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chevalier che è stato un long seller nonostante non appartenga interamente né all’ambito dei libri commerciali né a quello dell’alta qualità letteraria.
Perché è difficile esportare libri italiani?
Ci sono alcune caratteristiche intrinseche alla letteratura italiana che la rendono poco esportabile ma il panorama sta lentamente cambiando. Negli anni ’60 gli autori italiani tendevano a scrivere di cose molto italiane, di una specifica generazione di italiani, che non avevano respiro internazionale. Oggi le cose stanno cambiando e, per esempio, iniziano ad esserci autori italiani di gialli, che è un genere piuttosto universale.
Se dovesse puntare su un genere che sarà capace di portare più Italia all’estero su quale scommetterebbe?
Sicuramente sui libri per ragazzi. Non mi sembra invece che ci siano molti margini per i libri illustrati, i cosiddetti coffee table book, che sono un prodotto costoso su cui non credo che molti editori avranno interesse a rischiare: sono destinati ad estinguersi. Però voglio dire anche che credo che la narrativa si riprenderà. Confido che l’Italia crescerà in termini di popolarità. A dispetto delle nefandezze di una classe politica che ha fatto tutto il contrario che dare lustro al paese, c’è stima e attenzione nei confronti dell’Italia e io personalmente ho modo di accorgermene quando partecipo a queste manifestazioni internazionali. Ora avremo l’Expo 2015 e sarà un’importante vetrina internazionale che porterà attenzione su tutto ciò che è italiano. Il made in Italy è sinonimo di cibo, bellezze artistiche e naturalistiche e a tutto ciò si collegano anche cose come musica, cinema, libri.
Se dovesse dare agli americani un motivo per leggere letteratura italiana cosa direbbe?
Che attraverso la letteratura potete scoprire l’Italia, potete scoprire come siamo al di là dei luoghi comuni. Nei libri italiani non ci sono spaghetti e mandolini, ma il vero animo italiano. Nella narrativa la trama è inventata, ma i personaggi e le situazioni sono ispirati alla realtà e incarnano vizi e virtù di un popolo.
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