Dopo 15 anni il Leone D’Oro torna in Italia, con Sacro GRA. La pellicola di Gianfranco Rosi è stato anche il primo documentario in concorso nella storia della prestigiosa Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, e il fondatore-direttore di Open Roads Film Festival non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di annoverare questo film nel programma 2014.
Il tributo al Grande Raccordo Anulare, che circonda la capitale attraverso 70 chilometri è la scenografia poeticamente desolata dove le numerose storie di umanità sono raccolte in due anni di lavoro, tra tra pescatori di anguille e lavoratori del Pronto Soccorso.
Gianfranco Rosi racconta a La VOCE di New York il suo Sacro GRA.
Solitamente i romani non amano il Grande Raccordo Anulare, ma questo film è un atto d’amore alle persone che vivono nelle aeree limitrofe al GRA…
Sì è il luogo più odiato dai romani. Io ho imparato ad amare Roma attraverso il Grande Raccordo Anulare, quindi speravo di poter contagiare tutti i capitolini attraverso il mio film, e a percorrerlo in maniera diversa. È un luogo che si può percorrere all’infinito e perdersi senza sapere mai dove ci si trova.
Com’è è stato concepito il film?
Nasce da un’idea di Nicolò Bassetti, che è un architetto urbanista-paesaggista e ha percorso il GrandeRaccordo Anulare a piedi per un periodo di tempo, mappandolo. Quando mi hanno chiesto di fare questo film: ho trascorso un paio di anni assieme a Bassetti che mi ha introdotto a questo luogo. Però ho come dovuto farmi carico di una trasformazione, da una mappa fisica ad una mappa mentale. Alcuni personaggi li ho incontrati attraverso Niccolò, altri sono arrivati per caso, come nella vita, e da persone sono diventati personaggi del film, anche dopo un anno o due che li frequentavo. È stato un rapporto di lenta crescita.
Qual è è stata la reazione dei protagonisti di Sacro G.R.A. nel vedere il film?
Loro si sono visti per la prima volta a Venezia ed è stato molto bello. Mi ha dato molta gioia vedere che ognuno di loro si fosse rivisto. Il documentario a mio avviso è trovare un frammento di realtà del personaggio che stai riprendendo. Quindi ognuno di loro si è come riconosciuto in questi piccoli momenti che ho colto di loro.
Le Città Invisibili di Calvino ha in qualche modo ispirato la narrazione?
Sicuramente, come ha influenzato tutti gli altri miei film, nel tentativo di creare un’astrazione della realtà, partendo da un luogo preciso e trovare una trasformazione e astrazione di questo luogo, e far sì che diventasse qualcos’altro.
Corrado Guzzanti l’ha visto il film, dal momento che molti anni fa aveva tributato il Grande Raccordo con una canzone?
Non lo so, sicuramente l’avrà visto. Quella canzone era diventata un tormentone sul set, ma non è stata un riferimento per il film, l’atmosfera è diversa.
Qui a New York lo conoscono il Grande Raccordo Anulare?
No, ma non è importante conoscerlo, perché è un luogo ipotetico, è l’unico viaggio possibile attorno ad una città ed ha una forma molto precisa, un cerchio che circonda la città di Roma, come una muraglia moderna. In America non c’è la concezione di una strada che gira attorno, mentre in Europa è molto comune, da Londra a Parigi, Lisbona, Madrid. Ogni città ha il proprio raccordo anulare, persino Tokyo. Shanghai ne ha tre o quattro che girano attorno. In America essendo una forma che non conoscono, li spiazza molto. Ma nel mio film è quasi come se fosse una retta infinita che si apre e dove io mi sono immaginato un luogo ipotetico: dove c’è un villaggio, un fiume, un ponte, una chiesa, una piazza, un palazzo, una prostituta, un’ambulanza che viaggia avanti e indietro, quindi alla fine è diventato un luogo aperto. La grande sfida era aprire questo cerchio e farlo diventare una rete infinita.
In questo modo sei riuscito a far vedere una Roma sconosciuta agli stranieri…
In un festival ho incontrato una giornalista americana che mi ha aggredito in maniera violenta, dicendomi che il mio film l’aveva profondamente delusa perché voleva vedere Roma, i monumenti, e il mio film non mostrava nulla di tutto ciò e poteva essere una qualsiasi città al mondo. Io le ho risposto che quella era la mia intenzione: creare un luogo ipotetico, e creare una psico-geografia più che la mappatura precisa di un luogo.
Come sta andando la distribuzione?
Ha un distribuzione in sala in più di 30 paesi, inclusi la Cina, il Giappone, la Corea, le Filippine, il Sud America, l’Europa. E ognuno vede un luogo possibile. La sfida era di utilizzare Roma come un pretesto narrativo e che il film avesse una valenza universale.
Cosa ha comportato la vittoria alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia?
Per me è stata la chiusura di un percorso, durato vent’anni dal mio primo film. Per me è sempre importante rompere la barriera tra documentario e film di finzione. Questo è un documentario ma è anche cinema. La vittoria è stata una grande sorpresa.
Pensi che in Italia siano meno ricettivi alla categoria documentaristica, rispetto all’America?
I documentari che sono fatti qui in America sono completamente diversi da quelli fatti in Italia. Sono dettati da una legge molto precisa: i commission editors vogliono che siano scritti in maniera molto forte, con uno script, un percorso preciso, tesi, antitesi, sintesi, buono e cattivo, le spiegazioni di qualcosa. Sono sempre strutturati come dei saggi. Gli americani sono più lontani dal documentario personale, come il mio, dove alla fine nessuno non ha nulla da dimostrare, se non degli incontri. In Italia non c’era una grande produzione di documentari ma sta cambiando, c’è un fermento e una crescita e di attenzione a questo genere.
Quali sono i documentaristi statunitensi che ti piacciono?
Ho saputo che c’è un movimento di giovani documentaristi interessante, ho visto delle cose sparse. Poi naturalmente Errol Morris è un classico, lo amo molto lui, quanto detesto Michael Moore, che ha ucciso la forma del documentario “‘it’s all about explaining, complaining”, trovo che sia completamente insulso. Anche la televisione ha ucciso il documentario con programmi come Discovery Channel, dove la realtà diventa entertainment.
Hai un nuovo film in cantiere?
Adesso parto per Lampedusa, e incomincio a lavorare ad un film lì. È arrivato per caso, non mi aspettavo di rimettermi così presto a fare un altro film è successo qualcosa che mi ha spinto ad andare lì a raccontare questo ultimo lembo di terra al confine tra l’Africa e l’Europa, e raccontare la storia dell’isola e degli isolani, perché in questi anni Lampedusa è stata ritratta come una specie di contenitore di sbarchi e ci si è dimenticati che ci sono delle persone che vivono là, che sono sempre state mostrate come delle comparse. In questo film vorrei interagire con la popolazione di Lampedusa.
Sacro GRA viene proiettato al Lincoln Center per il festival open Rads, lunedì 9 giugno alle 16.00.