Se fosse rimasta nella sua Milano probabilmente oggi sarebbe disoccupata o impiegata in qualche museo, invece Cecilia Alemani,dal 2011, è curatrice indipendente e direttrice del programma di arte pubblica dell’High Line Art, la ferrovia sopraelevata che l’ex sindaco di New York ha fortemente voluto e trasformato in uno spazio pubblico aperto che è diventato uno dei simboli della città.
A soli trentasette anni, la giovane Cecilia è entrata a pieno titolo nel Gotha dell’arte negli Stati Uniti di cui gli italiani fanno da portabandiera. Insieme a lei, Massimiliano Gioni (suo compagno N.d.A) direttore del New Museum di arte contemporanea a New York, Valentina Castellani, braccio destro di Larry Gagosian, il numero uno dei galleristi a New York, e Francesco Bonami, curatore del Museo di arte contemporanea a Chicago.
La bella gioventù italiana che ha conquistato l’America si è formata in Italia in prima battuta, ma vanta master negli Stati Uniti ed esperienze a Londra, Berlino e Parigi.
Proprio come nel caso di Cecilia, che è arrivata a New York per un master al Bard College nel 2003, dopo un passaggio a Parigi e Londra.
Curatrice indipendente, il suo lavoro si è sviluppato principalmente su due fronti: da una parte le collaborazioni con musei e istituzioni come la Tate Modern di Londra, il Ps1 di New York, la Mostra del Cinema di Venezia, dall’altra i progetti sperimentali e il coraggio di osare. Alemani ha diretto X Initiative, uno spazio non profit a Chelsea, New York, dove in un anno ha ideato e organizzato oltre 50 eventi e ha fondato No Soul For Sale, un festival di collettivi artistici e spazi d’arte indipendenti provenienti da tutto il mondo.
Oggi si concentra soprattutto sul progetto legato all’High Line, che ha portato a New York nei primi due anni due miliardi di dollari di investimenti e oltre sette milioni di visitatori.
Nel suo nuovo ruolo, si confronta con l’arte pubblica e con il modo di concepire l’arte fuori dalle gallerie con un concetto tutto nuovo.

Un’altra immagine di Cecilia Alemani (Photo by Timothy Schenck).
La sua storia sembra la favola perfetta dell’American Dream. Non solo un pizzico di fortuna: Cecilia ha studiato, si è formata negli spazi artistici più importanti e si è giocata la carta americana fino in fondo.
Da curatrice indipendente a committente d’arte pubblica. Come cambia l’approccio con l’arte?
Cambia moltissimo e le sfide sono tante. A cominciare dal fattore tempo e spazio e poi ci sono gli artisti che a differenza di chi espone nelle gallerie hanno una maggiore sensibilità all’arte civica. Infine, l’audience è diverso. Gli oltre cinque milioni di visitatori non sono quasi mai dei cultori ed esperti d’arte.
Quali sono i criteri che ti portano alla scelta degli artisti ai quali commissionate le istallazioni per l’High Line?
Li invitiamo soprattutto a tenere conto dell’unicità dell’ambiente che l’High Line offre: un paesaggio urbano unico che ha anche una vegetazione ricca e una vista sull’Hudson. Chiedo agli artisti di creare un dialogo tra le loro opere e l’ambiente circostante.
C’è un dialogo a New York tra gli spazi indipendenti , le gallerie e le esposizioni d’arte pubblica?
New York è una città difficile e complessa dove c’è un’alta concentrazione di artisti. Personalmente, nel mio lavoro di responsabile dei contenuti artistici delle High Line, più che cercare un dialogo con le gallerie di Chelsea preferisco espandere i contenuti nelle aree limitrofe all’aperto. Da qui sono nati i video-program. Nel mio lavoro, punto anche a creare un network di relazioni con gli spazi indipendenti.

Una delle installazioni visibili dalla High Line di New York.
L’High Line è un esempio vincente e di successo della sinergia tra pubblico e privato e dell’arte pubblica come strumento per attrarre turisti. Pensi che in Italia questo modello sarebbe possibile?
Non credo perché in America l’arte è supportata moltissimo dai filantropi anche grazie ad un sistema fiscale e di tassazione molto diverso. Oggi il 95% dei fondi dell’High Line viene dal mondo privato. A New York ci sono le gallerie, ci sono i filantropi e le istituzioni che supportano gli artisti. In Italia è più difficile.
Non credi sia un problema solo legato alla tassazione e al sistema fiscale?
Certamente no. È un problema culturale, legato anche a un periodo difficile. In Italia le istituzioni non sempre supportano gli artisti e gli spazi indipendenti, i privati filantropi sono troppo pochi rispetto alla produzione artistica e alcuni musei sembra stiano per morire.
Nei reportage su New York si parla spesso della “fuga degli artisti” dalla Grande Mela per i costi ormai insostenibili…
La crisi del 2009 non ha toccato il mondo delle gallerie, che è appannaggio esclusivo dei ceti ricchi. A soffrire sono gli artisti emergenti, meno conosciuti forse. Molti vanno a Los Angeles perché i costi sono più sostenibili e ci sono più piattaforme e spazi disponibili senza la pressione del mercato.
Nell’arte contemporanea oggi quale linguaggio sta tornando ad emergere?
Con la recessione è tornata la pittura astratta. Oggi vedo che si sta ritornando alla pittura classica.
Massimiliano Gioni, Valentina Castellani e Francesco Bonami. Insieme a te sono i grandi nomi dei giovani italiani quarantenni o under 40 ai quali l’America ha affidato la gestione di musei e spazi importanti.
Sembra proprio così. In America conta molto la formazione, l’esperienza e la capacità di saper lavorare. Nel mio caso, è stato il personale dell’High Line a contattarmi direttamente e a propormi il ruolo che oggi ricopro.
Da oltre dieci anni a New York. Se fossi in Italia, cosa faresti?
Credo sarei disoccupata o forse impiegata in un museo.