Al Tribeca Film Festival, appena conclusosi a New York, l'unico lungometraggio italiano in concorso è stato Alì Blue Eyes (titolo originale Alì ha gli occhi azzurri), una pellicola vera e amara del giovane regista romano Claudio Giovannesi. Il film racconta la storia di Nader, un ragazzo di origine egiziana che lotta tra la cultura e le tradizioni della famiglia e il desiderio di sentirsi italiano. Il titolo, preso a prestito dalla poesia di Pasolini Profezia, in cui l'autore immaginava una grande migrazione dall'Africa del Nord verso l'Occidente, guidata dal giovane Alì dagli occhi azzurri, fa riferimento all'abitudine del protagonista di indossare delle lenti a contatto azzurre nel tentativo di non apparire troppo egiziano.
“Si tratta di una metafora molto semplice dell'identità divisa di questo personaggio — ha spiegato il regista a La Voce di New York – L'idea è nata perché quando ho conosciuto Nader, che è un attore non professionista che interpreta se stesso, lui indossava davvero queste lenti, per sembrare italiano”.
La tua è una storia di integrazione culturale nei sobborghi romani. Che significato ha, per te, mostrarla qui a New York?
"Questo è il tempio della multicultura. L'essere newyorchese è un'appartenenza che prescinde dalla razza o dalla cultura. L'identità newyorchese sembra essere qualcosa che si fonda sul non avere un'identità vera e propria, nell'essere un miscuglio. E io la trovo una cosa bellissima, uno dei pochi pregi della società occidentale contemporanea. Perché in un ambiente in cui c'è scambio culturale si scoprono cose nuove. E New York è il simbolo di questo, con tanto di conflitto. Spesso la rappresentazione delle società multiculturali tende a dare un'immagine stereotipata di fratellanza, del prendiamoci per mano, ma quella è una forma di retorica che, seppure opposta a quella razzista, è anch'essa un modo per non vedere la realtà: la multicultura passa attraverso il conflitto. Basta pensare alle banlieue francesi. Ma questi conflitti non vanno rimossi: fanno parte della storia. E qui sono già avvenuti. Quello che io racconto, nel piccolo, nel mio film, qui è un processo storico che si è già verificato".
L'Italia ha qualcosa da imparare da New York in termini di integrazione?
"In questo momento credo che l'Italia, in termini di vita in società e di politiche, abbia da imparare da chiunque. Qui in America la politica sull'immigrazione è più avanzata che in Italia. Per esempio se nasci qui sei americano. In Italia questa cosa non c'è".
Tu mostri un'Italia che non è quella che tipicamente si vede nei film italiani esportati all'estero. Quali sono state le reazioni del pubblico?
"Mi chiedo spesso quale sia il punto di vista del pubblico straniero. Il mese scorso ero a Hong Kong a mi facevo la stessa domanda: cosa vedono loro in questo film? Poi scopri che comunque ci sono dei punti di contatto perché anche a Hong Kong hanno delle minoranze e la questione dell'integrazione c'è anche lì. Però, per esempio, è capitata una ragazza che non capiva che differenza ci fosse tra italiani e rumeni, come noi magari, generalizzando, facciamo fatica a distinguere un cinese da un coreano. Il pubblico comunque fa tante domande e sembra molto curioso, interessato a capirne di più".
Cosa ti è sembrato del festival?
"Lo trovo stupendo. Mi piace molto il fatto che è tutto molto informale, non c'è quel glamour forzato che trovi in molti eventi cinematografici. Molti festival puntano tutto sul tappeto rosso e magari poi i film sono brutti. Qui mi sembra che ci sia più attenzione ai film e ai contenuti. Inoltre è un festival che ti mette in contatto con le cinematografie di altri paesi. E mi sembra che il mio film si inserisca bene in questo contesto".
Che effetto fa essere l'unico film lungometraggio in concorso al Tribeca Film Festival?
"È una grande emozione. Tra l'altro siamo arrivati qui in tanti, siamo un bel gruppo di persone che hanno lavorato al film, quindi quando ci muoviamo o andiamo a vedere dei film sembriamo proprio una sorta di delegazione italiana: ci manca solo la bandiera".