NEW YORK. In un pomeriggio uggioso a New York siamo usciti a prendere una boccata d’aria alla PS1, la sezione distaccata del MoMa a Long Island City (NY). Proprio così, dopo lo stress di prendere due treni, lasciato alle spalle il rumore assordante della città e con un po’ di pioggia, ci siamo goduti il panorama di terre lontane eppure così vicine, il Sud d’Italia, quello vero, comodamente sdraiati in uno dei musei più famosi al mondo. Siamo andati all’apertura della cine-installazione Alberi (2013) di Michelangelo Frammartino lo scorso 18 Aprile, selezionata per il Tribeca Film Festival di quest’anno. Potersi chiudere in una “bolla” e ascoltare i suoni della natura, godersi il verde, sdraiati per terra senza pensieri. Uomini vestiti da alberi si aggirano nei boschi di un villaggio della Lucania. Il giorno e la notte si susseguono in loop. Si può sostare per ore o solo per cinque minuti. La installazione non ha inizio o fine, si snoda come un ciclo continuo in cui lo spettatore è totalmente coinvolto, con occhi, udito manca solo l’olfatto. Di fortissimo impatto l’installazione di Frammartino, il regista calabrese di origine, e milanese di adozione che ci ha raccontato poi durante la premiere due giorni dopo, l’avventura del suo progetto. Un lavoro che ricongiunge lo spettatore ad un mondo probabilmente sconosciuto, dimenticato ormai da chiunque vive nelle metropoli contemporanee.
Michelangelo Frammartino
Com’è nato il progetto di Alberi?
“Ha origini molto antiche, per il fatto che avevo già girato un film in precedenza in Calabria” Michelangelo si riferisce qui al film le Quattro Volte (2010) “in cui c’era un rito arboreo e lì ho scoperto queste tradizioni proprio mentre giravo, e mi avevano colpito tantissimo perché è strano che l’albero sia il centro dell’attenzione. Di solito il centro è l’uomo, invece nei culti arborei è la vegetazione. Che generalmente è qualcosa che sta sempre dietro, di contorno, queste tradizioni invece la mettono al centro. Mi era piaciuto molto filmare questi riti e lì mi sono reso conto che nonostante fossi in Calabria, ad Alessandria del Carretto, la gente del posto si sentiva più lucana che calabrese”. “Ho cominciato a capire quindi, che questa terra la conoscevo pochissimo, benché fin da piccolo andassi in Calabria con i miei genitori, ricordavo queste montagne bellissime, in cui la l’autostrada SA-RC passa in mezzo, violentando il panorama. Però ricordo da sempre questi luoghi meravigliosi, la Basilicata. Così ho cominciato a visitarla ed un giorno una guida del Pollino mi disse, dovresti vedere il Carnevale è molto affascinante. Così ho cominciato a documentarmi ed a un certo punto mi è apparsa questa figura del romito, l’uomo albero, che mi ha colpito tantissimo. Così mi sono avvicinato a questa tradizione e ho iniziato a raccogliere informazioni. Sono andato a Satriano che è il paese dove si svolge il rito ed era Ottobre, si sono dovuti vestire apposta per me! Ed è nato così il progetto di Alberi”.
Com’è stata la reazione della gente del posto, in fondo si tratta di un piccolo villaggio, com’è stato girare in quel contesto?
“Innanzitutto c’è da dire che noi abbiamo trasformato il rito. Quello originale prevede che una persona sola si vesta, un solo individuo insomma. Sono andato lì per il Carnevale e nessuno si era vestito spontaneamente. Quindi era qualcosa che stava scomparendo, anzi direi scomparso. Per cui quando ho descritto alla gente del posto il progetto mi hanno risposto positivamente, dicendomi addirittura di dargli una mano per farlo rivivere. A quel punto mi sono detto va bene, modifichiamolo allora, proviamo a lavorarci e sono stati tutti molto disponibili, non solo per come hanno reagito ma anche perché abbiamo girato in un altro paese non in quello originario del rito. E questo per te che sei calabrese capisci cosa vuol dire, sai quanto siamo campanilisti. E’ girato ad Armento non a Satriano. La gente del posto ha capito il progetto, e avevamo bisogno di un posto che fosse definito, ormai i paesi mantengono il centro storico e poi hanno uno sfrangiamento di nuove costruzioni. Io avevo bisogno di un paese in mezzo al verde. Quando hanno capito, cioè che dovevamo fare un lavoro di landart, portare dunque la foresta dentro hanno sposato il progetto e sono stati disponibili a trasformarlo in un rito collettivo, e a farlo in un altro paese. Di questo non li ringrazierò mai abbastanza”.
Secondo te c’è il pubblico giusto per un contenuto così a New York, una tradizione e immagini così ancestrali del nostro paese?
“Non so, vedremo nei prossimi giorni come sarà il turnout. Quando sono venuto per la scorsa edizione del NYFF, ho visto che c’è un certo affetto per queste tematiche. Innanzitutto vediamo se è apprezzato qui alla PS1. Quando siamo usciti con le Quattro Volte (2010), il film forum era sempre pieno, però non è stato lo stesso in altri Stati. Mentre invece a New York c’è stato sempre il pienone. Ci fu una risposta molto forte. A me interessa soprattutto che il prodotto mostri una tradizione, ma trasformata. Alberi lavora molto sull’immaginario e soprattutto sulla percezione. Sul piacere di essere lì, adesso, di fronte a delle immagini che ti riconnettono con il pianeta con la natura con ciò che c’è intorno”.
Secondo te invece in Italia il pubblico come reagirà?
“Da noi è un po’ più complicato, io tendo a pensare che il pubblico abbia sempre ragione. Però è chiaro che veniamo da un trentennio di immagini molto particolari da un certo tipo di televisione”.
La scelta di mantenere i suoni della natura è legata a questo gioco di percezioni nel filmato?
“Si io tendo anche nel cinema a non usare dialoghi. Gioco molto con i suoni dell’ambiente e quando uso i dialoghi molto spesso c’è il dialetto, quindi – ride- comunque incomprensibile. Lascio sempre che la comprensione sia legata a qualcos’altro, non al linguaggio, non alle parole, forse questa potrebbe essere la ragione per cui ci capita di girare molto all’estero. Perché c’è una libertà maggiore, la comunicazione è legata ad altri elementi”.
Come si può definire quindi Alberi?
“E’ una cine-installazione, perché ha sicuramente un debito grande verso il cinema, anche il linguaggio che utilizza si rifa a quello cinematografico ma al tempo stesso è una installazione, perché presenta una libertà di fruire che non è più consueta nel cinema. Quando andiamo a vedere un film, si deve andare ad un certo orario, si entra e ci sono i titoli di testa, si esce e ci sono quelli di coda, il prodotto si vede una volta sola”.
In Alberi invece non c’è inizio e non c’è fine. Lo scorrere della giornata, il giorno e la notte, potrebbero scandire l’inizio o la fine del filmato?
“In realtà no perché la notte potrebbe essere invece il centro del racconto. Per me era molto importante che ci fosse questa libertà. Come la vita degli alberi, che muoiono e rinascono, come sono i riti che tornano ogni anno e com’era il cinema quando ero ragazzo io. Potevi entrare quando volevi e vedere il film in loop, anche prima il secondo tempo e poi il primo. Una volta c’era questo senso di libertà”.
Questo è un lavoro in coproduzione
“si ormai la coproduzione è obbligatoria per i lavori di questo tipo, perché è difficile farle solo con le risorse italiane e quindi a me capita da tantissimo tempo di collaborare con produzioni che ormai sono diventate affiatate.”
Pensi che le coproduzioni siano uno strumento positivo per l’arte ed il cinema in generale. O poi un Paese domina l’altro e il prodotto finisce con l’essere modificato?
“sì sono decisamente uno strumento positivo. Se c’è un paese dominante, è quello in cui si gira e poi ci sono tutti i partner come la Germania, la Francia ecc. che poi chiedono che una parte del lavoro sia fatto lì. Hans il nostro tecnico del suono ad esempio è berlinese, ed abbiamo dovuto fare il mix audio del film laggiù. Il lavoro è certamente spezzettato. Quindi può diventare un po’ tortuoso alle volte, questo sicuramente. D’altronde senza coproduzioni non riusciremo a far nulla”.
Non è strano che questo genere di prodotti, che mostrano un’Italia vera, tradizionale ma non stereotipata vengano apprezzati di più all’estero che nel nostro stesso paese?
“Guarda il film precedente in termini di numeri quando uscì in Italia andò piuttosto male, ed invece in Francia o GB ebbe dei risultati di gran lunga migliori, quale sia la ragione non so dirtela, non sono bravo a dirlo con certezza. Questa comunque è una installazione, per cui ha un circuito particolare. Perché si muove in un ambito museale, ed è un ibrido quindi ci fa naturalmente piacere che vada anche nei Festival in una forma un po’ diversa.”
Raccontaci un aneddoto, un ricordo del lavoro in Basilicata con la tua troupe
“I due comuni che sono stati coinvolti ci hanno aiutato molto, Armento e Satriano e ovviamente, la regione. Ci siamo trovati benissimo soprattutto con le persone. Armentesi e Satrianesi ci hanno accolto più che bene. A me tra l’altro capita sempre di andare con delle troupe composte anche da stranieri, polacchi, tedeschi, e devo dire che posso essere sempre orgoglioso dell’accoglienza. Delle persone del posto. E’ sempre bellissimo vedere gli stranieri così contenti di lavorare in questo tipo di accoglienza, questa cosa mi inorgoglisce tantissimo”.