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January 25, 2011
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Alpini in Afghanistan:Raccomandati a morire?

Valeria SabatinibyValeria Sabatini
Time: 4 mins read

Siamo a trentasei. Trentasei soldati che partono con lo zaino in spalla e tornano a Ciampino chiusi in una bara avvolta nella bandiera italiana. Si chiamava Luca Sanna era Primo Caporal maggiore e aveva trentadue anni, si era sposato quattro mesi fa, e con la moglie viveva a Micottis di Lusevera. Era un alpino dell'VIII reggimento di stanza a Venzone paesino nella provincia di Udine, quella provincia del nord est italiano dove già alle otto di sera scatta il coprifuoco e poco resta a quei giovani soldati per distrarsi dalla routine della caserma.

È stato ucciso lunedì in un odioso quanto vigliacco attentato, un terrorista facendosi passare per un poliziotto afghano è entrato nell'avamposto highlander Bala Murghab, in Afghanistan e ha sparato contro chi gli si stava avvicinando.

Assieme a Luca Sanna un altro alpino è stato colpito il caporale Luca Barisonzi di soli venti anni originario di Voghera, in queste ore i medici dell'ospedale americano Role 2 ad Herat tentano di salvarlo. È stato il Generale Tozzi, comandante della regione militare della Sardegna, a portare la notizia dell'uccisione di Luca alla sua famiglia, la procura di Roma nel frattempo ha subito aperto un'inchiesta e le ipotesi di reato al vaglio sono al momento due: omicidio o attentato con finalità di terrorismo.

«Io lo conoscevo, certo qui ci conosciamo tutti –  racconta  il caporale G.T. commilitone del militare ucciso – abbiamo preso il caffè insieme qualche volta. Adesso mi mancano le parole, mi comprenda non riesco ad esprimere ciò che provo. Ci vedevamo tutti i giorni e adesso è lì con un proiettile in testa. Una cosa però voglio dirla e cioè che molti di quei ragazzi che stanno laggiù vengono spediti sul fronte di guerra senza l'adeguato addestramento».

Un'accusa grave che arriva dall'interno ma circostanziata da elementi raccolti negli anni, non una voce di qualche militare frustrato perché vede partire il vicino di branda ma appurata anche da un'inchiesta un paio di anni fa dall'allora Procuratore Militare di Roma Antonino Intelisano. Ed oggi dopo l'ennesima morte la denuncia fatta da un amico del povero Luca Sanna con parole forse ancora più forti per lenire il dolore di un compagno perso in quella che da missione di pace è ormai evidente di filantropico ha ben poco. 

Guardi G. che quello che lei sta dicendo è piuttosto grave…

«Lo so ma è una prassi risaputa, lei lo sa cheper andare in missione in molti pagano la cosiddetta mazzetta ad alti gradi delle forze armate? Io, insieme a molti altri commilitoni svolgo il mio lavoro in caserma da anni, nonostante ciò nessuno di noi ha mai preso parte ad alcuna missione all'estero o frequentato qualche corso specifico nell'ambito militare in quanto all'interno della nostra caserma incarichi di rilievo e la partecipazione a corsi o missioni sono svolti sempre dallo stesso personale».

Sta dicendo che anche Luca Sanna era tra i militari poco preparati per una missione di guerra in un'area così pericolosa?

«No guardi non voglio essere frainteso io oggi sono qui a denunciare pubblicamente queste cose perché Luca era un mio amico ed è un dolore che mi ha toccato da vicino, ma sulla sua preparazione non posso dire assolutamente nulla. Aveva già partecipato ad altre due missioni sempre in Afghanistan, era un soldato preparato nell'esercito c'era entrato nel 2003, lui era un militare che credeva in ciò che faceva ed aveva alle spalle una preparazione ineccepibile. Purtroppo quello che è successo non poteva immaginarlo nessuno, un attentato subdolo, questi terroristi stanno cambiando strategia e si fanno sempre più spregiudicati fino ad addentrarsi in un campo base».

Torniamo alla sua accusa, al fatto che i militari non vengono adeguatamente preparati.

«Ho ragione di ritenere che qui a Venzone anche per partecipare ad un semplice corso patenti bisogna essere raccomandati, lo sponsor lo chiamano qui. Personale che da anni continua a richiedere la propria partecipazione a missioni all'estero si è visto sempre chiudere la porta in faccia in quanto al suo posto partiva qualcun altro che legalmente non avrebbe potuto farlo. È ovvio che se sono questi i criteri di scelta, a imbarcarsi su un aereo per finire laggiù sono spesso giovani che non hanno completato la preparazione o da troppo poco tempo nell'esercito, ma evidentemente più bravi ad ottenere gli appoggi giusti».

Ma sono pur sempre dei militari di certo non dilettanti allo sbaraglio non crede?

«Su quanto accaduto martedì posso aggiungere anche questo; il livello di attenzione si è pericolosamente abbassato tra i militari, qualcuno si dimentica diciamo così l'elmetto o non segue in toto il protocollo che prevede altre misure di sicurezza. Purtroppo di questi episodi non se ne parla, i giornali non so perché molte volte non danno voce al malessere che gira tra noi militari. Si parla di mobbing nelle aziende ma quanti sanno che in tanti di noi hanno subito fatti simili? »

Insomma si paga la mazzetta per partire?

«Nessuno ne parla apertamente ovvio ma come spiegherebbe altrimenti lei certi strani trattamenti di favore quando non si è ancora completato il percorso addestrativo? È qualcosa che accade non soltanto qua nelle caserme del nord est ma, mi creda se va in giro a chiedere ne troverà di mani che sono state allungate per consegnare l'obolo».

Come già emerso nel 2008 in un'altra inchiesta giornalistica in molti casi la prima mensilità percepita in missione finisce nelle tasche di marescialli, colonnelli, generali come segno tangibile della riconoscenza di chi viene spedito oltre confine. E non sono spiccioli, a fare i conti con la calcolatrice significa un assegno mensile netto che nella peggiore delle ipotesi e di 2.700 Euro nella migliore arriva a 6.000. Oltre allo stipendio. Un obolo quanto mai pesante se poi si è bravi a fare partire anche solo una mezza dozzina di raccomandati allora il gioco vale la candela. Si ma per loro che restano a casa, visto che per alcuni di quei "fortunati" il rientro in Italia finisce dentro una bara. Avvolta nel tricolore.

 

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Valeria Sabatini

Valeria Sabatini

Nata in Calabria nel 1971 cresciuta in Umbria, da piccola ero sicura che sarei andata alle Olimpiadi come ginnasta. Non ci andai, ma la passione per il tappeto elastico è rimasta. Scoprii che mi piaceva scrivere Ho iniziato la mia attività di giornalista in Emilia Romagna. Testate nazionali e locali. Sono stata direttore editoriale di una pubblicazione mensile di Reggio Emilia, curato uffici stampa e cataloghi d’arte. Nel 2004 mi trasferisco per un anno in California e giro gli States, raccolgo le mie esperienze in un diario personale. Mi piace vivere tra due culture, quella italiana e quella americana, prendere il meglio di entrambe ed osservare con meno pregiudizi ai difetti. Nel 2011 incontro quello che diventerà mio marito, un ufficiale dell’Airforce che ha voluto chiamare nostro figlio Leonardo, come il Maestro. Mi trasferisco definitivamente negli Usa, a Las Vegas dove insegno italiano e sono press coordinator per un centro culturale italiano.

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