Nell’antica Grecia, la lingua rifletteva una profonda comprensione della natura umana attraverso l’uso di tre parole per definire l’uomo: “ánthropos”, “ánēr andrós” e “thnetós”. Di queste, la più significativa era “thnetós”, che significa “mortale” e che evidenzia una consapevolezza fondamentale della condizione umana: siamo destinati alla morte. I Greci riconoscevano nella mortalità un tratto essenziale dell’esistenza umana, un concetto con profonde implicazioni anche nel contesto della modernità, della longevità e del progresso scientifico.
La parola “thnetós” ci ricorda che la nostra vita è finita, che siamo destinati a un ciclo di nascita, crescita e morte. Questa consapevolezza della mortalità è alla base di molte delle riflessioni filosofiche e letterarie dell’antica Grecia. Gli antichi Greci vedevano la malattia non tanto come una causa di morte, ma come un sintomo inevitabile del fatto che siamo esseri mortali. In altre parole, ci ammaliamo perché dobbiamo morire, non moriamo perché ci ammaliamo.
La caducità della vita è un tema universale che ha affascinato l’umanità per millenni. La consapevolezza della nostra mortalità ci spinge a riflettere sul significato della vita, sui nostri valori e sulle nostre priorità. Questa riflessione è particolarmente rilevante oggi, alla luce dei progressi scientifici che stanno estendendo la durata della vita umana e migliorando la qualità della vita.
Negli ultimi decenni, il progresso scientifico e medico ha permesso un notevole aumento della longevità. Le innovazioni nella medicina, nella biotecnologia e nella ricerca sul genoma umano ci stanno avvicinando alla possibilità di curare molte malattie e prolungare significativamente la vita. Tuttavia, questi sviluppi sollevano importanti questioni etiche e filosofiche.
Se da un lato, il prolungamento della vita offre straordinarie opportunità per l’individuo e la società, dall’altro ci pone di fronte a nuove sfide. La saggezza greca ci insegna che la mortalità è una parte intrinseca della nostra esistenza. Come possiamo conciliare questa consapevolezza con il desiderio di vivere più a lungo e più sani?
Forse cogliendo nella mortalità un invito a vivere i nostri giorni pienamente e con intenzione, dando valore ad ogni momento, costruendo relazioni significative e contribuendo positivamente alla nostra comunità. Il progresso scientifico, per quanto volto a prolungare la vita, non può eliminare la nostra mortalità che costituisce parte integrante della condizione umana.
La vera sfida è, allora, vivere una vita piena, consapevoli del nostro destino mortale, ma impegnati a fare la differenza nel tempo che ci è concesso.