I 15 minuti del discorso di addio di Joe Biden, letto davanti alle TV unificate alle 8 di sera di New York del 15 gennaio, non hanno tradito le aspettative (dei critici, almeno). Non so in quanti abbiamo visto lo show, ma andava fatto: in fin dei conti era l’ultima occasione di sentire un presidente che lascia la scena dopo mezzo secolo nel Palazzo della Politica. Io, ammetto, avevo una (perversa) curiosità: scoprire il livello di empatia e di umiltà che avrebbe mostrato nell’occasione. Con ciò avrebbe dato, a uso dei posteri, una rispolverata alla sua vecchia fama di “politico vicino alla gente”, di “uno del popolo che viene da Scranton”, di uno che non pratica l’arroganza del potere. Avrebbe dovuto farlo per cercare di recuperare un po’ di popolarità, sapendo che nel sondaggio di CNN di pochi giorni prima gli spettatori gli avevano dato il più basso voto di approvazione del suo mandato, il 36%, contro il 64% di disapprovazione. E, a bilancio della sua intera presidenza, il 61% l’aveva giudicata un fallimento, contro il 38% che l’aveva definita un successo.
Che dire, dopo la performance televisiva in cui ha rivendicato per intero la bontà di tutto il suo operato? Non sarebbe stato meglio lasciare l’impressione di aver capito, e imparato, qualcosa dalla cruda realtà? Che non tutto era andato bene sotto la sua direzione, tanto che lo scorso novembre gli americani hanno dato la maggioranza assoluta dei voti allo stesso avversario repubblicano che lui (Biden) aveva battuto per 7 milioni di voti nel 2020? E che, della debacle democratica, il partito doveva fare tesoro, per sperare nella rivincita fra 4 anni?
Niente. E così gli speechwriter hanno dovuto ubbidire ai suoi ordini: tanta retorica scontata, condita da bugie e contraddizioni.
“Abbiamo creato 17 milioni di posti di lavoro, più di ogni altra amministrazione in un singolo mandato”, ha detto Biden. Ma senza spiegare che è stato il semplice rimbalzo occupazionale dopo che il Paese, nel 2020, era stato chiuso per il Covid. E ancora: “Milioni di imprenditori e aziende hanno creato ora (“now”, ha specificato, facendo intendere che il merito era della sua amministrazione) nuove imprese, assumendo lavoratori americani, usando prodotti americani”. Ma usando il linguaggio da MAGA chi avrà mai convinto?
Ha anche guardato al futuro Biden: “Devo dirvi che ho una grande preoccupazione”. È “la pericolosa concentrazione di potere nelle mani di pochissimi ultra ricchi e le pericolose conseguenze se il loro abuso di potere rimane incontrollato. Oggi sta prendendo forma in America una oligarchia di ricchezza estrema, di potere e di influenza che letteralmente minaccia la nostra intera democrazia, i nostri diritti di base e le libertà”.
Magari, per informare più correttamente la gente sui rischi che vengono dalla (innegabile) ricchezza pro Trump di Elon Musk e di Vivek Ramaswamy, il presidente avrebbe potuto ricordare un fatto vero, anche se scomodo. E cioè che, nella recente campagna elettorale, i finanziatori suoi e di Kamala Harris hanno dato il doppio di quanto raccolto dal GOP, in un rapporto di 2 a 1 secondo i dati ufficiali della commissione federale elettorale.
I soldi, come le famiglie delle élite, sono una realtà che ha sempre contato nella politica americana, ma non beneficiando una parte sola (dai lontani cugini Ted e FD Roosevelt bipartisan ai “contemporanei” Kennedy e Bush). Forse Biden confidava sulla scarsissima memoria degli americani. A parte la faraonica raccolta di fondi per i Dem nel 2024, lo stesso presidente era finito sui giornali qualche giorno fa per aver conferito la Medaglia al Valore della Libertà, il maggiore riconoscimento civile dato dalla Casa Bianca, a George Soros, l’ultra-miliardario finanziatore storico dei Democratici, delle cause radicali di estrema sinistra, e dei giudici che hanno perseguito Trump per anni.