L’aveva detto prima del voto, e ora l’ha ripetuto. Trump vuole abolire la cittadinanza americana riconosciuta a chiunque nasca sul suolo americano. La consuetudine viene da un verdetto del 1898 della Corte Suprema sul caso Wong Kim Ark, figlio di un immigrato legale – sottolineo legale – in America nel 1873. Wong, uscito dagli USA, voleva poi rientrarvi, ma nel frattempo era stata introdotta la “legge anticinesi” (Chinese Exclusion Act, del 1882). A Wong fu così negato il reingresso in America, lui fece causa e vinse. La Corte stabilì che un bambino nato negli USA – da genitori di discendenza cinese che, al tempo della sua nascita, erano soggetti all’imperatore cinese ma con un domicilio permanente e una residenza negli Stati Uniti, ed erano occupati in un’attività di lavoro ma non erano diplomatici o ufficiali al servizio dell’imperatore della Cina – automaticamente era diventato cittadino degli Stati Uniti. Caso diversissimo dalla realtà odierna, in cui i bambini nascono in una famiglia illegalmente qui e sono automaticamente americani.
Il verdetto del 1898, tuttavia, stabilì un precedente nell’interpretazione della Clausola sulla Cittadinanza del 14esimo Emendamento della Costituzione, ratificato nel 1868. In esso si affermava “la regola della cittadinanza per nascita all’interno del territorio, nella fedeltà e sotto la protezione del Paese, compresi tutti i bambini nati qui da residenti stranieri”. Approvato subito dopo la guerra civile contro la secessione degli stati schiavisti del Sud, il 14esimo emendamento aveva l’impellente scopo di garantire i diritti degli ex schiavi.
Gli USA sono, oggi, il solo Paese in cui lo ius soli è applicato in modo automatico e senza condizioni. Altri Paesi lo prevedono, ma con requisiti limitanti. Chi nasce qui è invece subito cittadino, a prescindere dai genitori. Tra gli altri benefici può diventare presidente (carica riservata dalla Costituzione ai nativi) a differenza di chi è “naturalizzato”. Come il sottoscritto, che per diventare americano ha seguito una delle strade legali che danno la “residenza permanente”, e dopo anni la cittadinanza. Mi pare un’assurdità, e non è l’unica.
Paradossalmente, in parte dell’opinione pubblica domestica e internazionale, specialmente tra gli anti-americani, questa situazione è considerata una sorta di “diritto umano” ad essere americani. Il perché si spiega in chiave politica: è lo stesso approccio di chi pensa al Muro come a una violenza verso i migranti, non come legittima protezione della sovranità americana.
A mio avviso chi si oppone a una frontiera fisica efficace contro i clandestini, e a leggi burocratiche serie e garantiste nel filtrare la concessione della cittadinanza americana, ha degli USA una concezione deviata. Quella di uno stato non-stato, un territorio aperto ai migranti senza documenti. Gente che, si è visto sotto Biden-Harris, quando entra negli USA va poi nei “santuari”, stati e città retti da governatori e sindaci Democratici. Dove anche gli immigrati illegali fanno la patente e sono curati negli ospedali. Se hanno un figlio piccolo, lo possono mandare a scuola fino alla laurea. E se non ce l’hanno, lo fanno in loco: così i genitori irregolari hanno in famiglia un cittadino regolare.
È una palese distorsione del sistema, sfruttata da angoli diversissimi: dalle mogli dei capi dei regimi illiberali nelle cliniche di lusso, a quelle di criminali e sospetti terroristi, che magari partoriscono in galera.
Per il disastro migratorio passato, Trump pensa alla deportazione di massa. Guardando avanti, vuole stoppare le cittadinanze anomale, perché di ex schiavi da proteggere non ce ne sono più.