“Le elezioni hanno conseguenze. Io ho vinto”. Lo disse Obama nel gennaio 2009, subito dopo la sua prima vittoria, nel meeting con i deputati e senatori repubblicani a proposito del programma economico che stava per realizzare. Era una legittima constatazione della nuova realtà, ma il presidente democratico ci tenne a enfatizzare con queste parole il concetto, perché rigirare il coltello nella piaga di chi perde è un diritto del vincitore, anche se esercitato senza grazia. (Per la cronaca, le decisioni del neopresidente dem furono poi bocciate alle elezioni di medio termine del 2010, che diede al GOP il controllo della Camera. Obama rivinse però nel 2012).
Trump ha ora un modo diversamente sgraziato per ribadire il potere riconquistato, sparando una raffica di nomine a ritmo quotidiano. La maggioranza è di qualità, come Marco Rubio alla Segreteria di Stato o Doug Burgum al Dipartimento del Territorio (Interior, ossia dedicato sulle politiche ambientali). Ma con quelle “geniali” degli imprenditori Elon Musk e Vivek Ramaswamy e quelle super-controverse di Matt Gaetz (Giustizia), Tulsi Gabbard (Intelligence), Pete Hegseth (Difesa) e Robert Kennedy Jr. (Sanità), Donald ha mostrato la stessa sicumera di Barack: “Alla Casa Bianca comando io, che ho vinto”, è come se avesse detto con gli annunci.
Nel caso di Gaetz, la provocazione autolesionista di Trump è (fortunatamente per il Paese e per il suo stesso partito) durata pochissimo. L’ex deputato è stato il primo a chiamarsi fuori, oggi 21 novembre, solo 8 giorni dopo la nomina.
Le sparate dei nomi inattesi, condannate come un assurdo dispendio di capitale politico da commentatori di vaglia e di fede repubblicana indiscussa, come Karl Rove sul Wall Street Journal, avranno però, a mio avviso, un seguito limitato nel tempo e nei media: per entrare in carica i ministri e i capi delle agenzie più importanti dovranno infatti ottenere il consenso del Senato: e ciò non è affatto scontato, anche se i repubblicani hanno la maggioranza. Vedremo quale sarà la formazione finale dell’amministrazione.
L’effetto che si farà sentire di sicuro, più sostanziale e bruciante per l’universo democratico, verrà dagli incarichi che Trump ha conferito al duo Elon-Vivek. Saranno “consiglieri” del DOGE, Dipartimento per l’Efficienza del Governo, quindi non dovranno passare attraverso le forche caudine del Senato, ma opereranno sotto un mandato monumentale: tagliare il troppo grasso che cola nel settore pubblico.
Da anni, i conservatori lamentano l’esplosione del deep state, dello stato profondo fatto di funzionari non eletti, in crescita numerica e costosi. Soggetti che sono così inamovibili nell’organico e nelle funzioni burocratiche da non essere mai toccati dalle conseguenze del ricambio politico ai vertici. È di fatto una classe politica a sé stante, che ha il potere della implementazione dei regolamenti, previsti dalle leggi e mai definiti nei dettagli di spesa. La prova di questa degenerazione istituzionale è nel voto politico nel Distretto di Columbia, dove ha sede la capitale Washington: Harris, nella generale debacle nazionale, ha preso il 92,4% dei voti. L’identificazione tra interesse politico di parte e una burocrazia sempre filo-democratica non potrebbe essere più lampante.
Da qui, il panico prodotto nella capitale dall’editoriale sul Wall Street Journal del 20 novembre, in cui il duo dei “tagliatori di sprechi” ha detto che la pacchia è finita. Musk e Ramaswamy individueranno, nei bilanci di ministeri e agenzie, le voci di spesa nate da regolamenti non espressamente approvati dal Congresso e le presenteranno alla ghigliottina di Trump. E lui deciderà, con ordini esecutivi appositi, che cosa e come tagliare. Perché, diceva Obama, le elezioni hanno conseguenze: una rivoluzione dello Stato Profondo, se andrà in porto, che nessun presidente repubblicano aveva mai concepito.