Dopo il siparietto con Joe Biden alla Casa Bianca – il presidente rideva di gusto, consapevole che l’esito non poteva essere migliore per lui: altro che nazismo incombente, il “colpo di palazzo” gli ha evitato una personale sconfitta, ora tutta sulle spalle di Kamala, Barack, Michelle, Bill, Hillary, Oprah, George e Taylor – Trump deve concentrarsi su questioni serie. La prima: evitare autogol clamorosi ai blocchi di partenza, come accadde nel gennaio 2017. Ossia, partire con nomine adeguate ai ruoli chiave, senza pescare mele marce come Steve Bannon o Anthony Scaramucci, licenziati dopo poche settimane per manifesta incompatibilità di linea e di carattere. Oppure quei generali e imprenditori imbarcati senza aver avuto tempo di conoscerli davvero.
Allora Trump era un vincitore sorpreso, impreparato a gestire il successo. Stavolta, invece, porta con sé l’esperienza dei suoi primi quattro anni al potere, oltre al lungo viaggio nel “deserto” dell’opposizione, segnato da continui ostacoli giudiziari e attacchi politici e mediatici senza tregua. Un contesto tanto ruvido e abrasivo, dal 2021 al 2024, da generare perfino l’accusa da parte della Harris di essere un novello Hitler che raduna le sue “camicie brune” al Madison Square Garden. Ironico che, come osservano molti commentatori, con la stretta di mano tra Biden e Trump la drammatizzazione propagandistica che doveva portare i Democratici alla vittoria sia finita in farsa, e il GOP, lungi dall’essere relegato nella pattumiera della Storia, si ritrovi ancora in campo.
È in questo clima che Trump, “il fascista” e “il condannato”, ha avuto modo di selezionare persone forti per la sua squadra, nel senso di fedeli e determinate a far parte del suo governo. Nel 2017, molti di coloro che entrarono nel suo staff erano convinti di fare il bene del Paese impegnandosi a “raddrizzare” quel boss folle, improvvisato e pericoloso. Volevano correggerne gli impulsi, contenerlo. Il risultato? Un fiorire di “whistleblowers”, come l’anonimo autore dell’editoriale sul New York Times che narrava la sua azione interna di “Resistenza”, ritenuta meritoria.
Ha imparato la lezione, Trump? Finora la prima ondata di nomine appare all’insegna della fedeltà al progetto, inscindibile dalla sua leadership. I nomi sono già noti: Susie Wiles come capo di gabinetto alla Casa Bianca ed Elise Stefanik, ambasciatrice all’ONU, giovane repubblicana di carriera e fedelissima, che non dovrebbe replicare la traiettoria di Nikki Haley, capace all’ONU ma poi ribelle nelle primarie. Haley, infatti, fu anche provocatoria: ‘‘Gli over 75 devono sottoporsi a un test mentale di competenza per candidarsi alla presidenza”, frase che Trump non ha né digerito né perdonato.
Altre nomine riguardano la sicurezza: per la Cia e la Direzione Nazionale dell’Intelligence, Trump ha scelto veterani dall’esercito e dall’intelligence. Sta accelerando nella composizione della squadra, con Marco Rubio come candidato più noto e rilevante per il ruolo di segretario di Stato. Tuttavia, la novità più rilevante e rischiosa sarà l’inserimento del duo Elon Musk-Vivek Ramaswami, a cui spetterà il compito di eliminare il superfluo e riorganizzare con efficienza la macchina statale. Un capitolo ancora tutto da scrivere, e chi anticipa successi o fallimenti si schiera faziosamente: filo-GOP se prevede (e spera) in un buon esito, filo-dem se assicura (e auspica) un fiasco. Vedremo.