I Tories, i conservatori inglesi, sostennero a spada tratta il francese Jacques Delors, quando nel 1985 planò sulla poltrona di capo della Commissione Europea. Vedevano con favore la sua idea di creare un mercato unico europee e l’abolizione di dazi, dogane e balzelli nazionali. Per gli inglesi – e non solo per loro – significava l’inizio di una fase di crescita e di creazione di ricchezza.
Ma quando Delors anni dopo propose che la Commissione Ue approvasse una serie di norme a favore del lavoro e a protezione dei lavoratori, i Tories insorsero. Alla loro testa Margaret Thatcher che in un discorso disse: «Non abbiamo abbattuto le frontiere di stato in Gran Bretagna solo per vedere imposte di nuovo a livello continentale con un nuovo Superstato Europeo che esercita il suo dominio da Bruxelles».
Destino di tutti i genuini e sinceri europeisti essere un giorno esaltati e un altro giorno insultati, a seconda degli interessi che le scelte politiche favoriscono o ostacolano. Jacques Delors lo sapeva perfettamente il giorno in cui accettò l’incarico di capo della Commissione. Ma oggi che non c’è più – si è spento nel sonno il 27 dicembre all’età di 98 anni – dobbiamo a lui una entità politica (l’Unione Europea) che ha creato le condizioni per difendere il continente, i suoi popoli, le diverse economie da tempeste politiche e finanziarie che senza la Ue avrebbero fatto disastri terribili.
Jacques Delors è il politico che una volta si infuriò così davanti alle manovre per affossare il trattato di Maastricht, il passaggio burocratico fondamentale che ci ha portato all’euro: «Non c’è posto in una democrazia per coloro che sanno dire solo No». Certo, era un convinto dirigista, un uomo per cui lo Stato centrale è il perno intorno al quale organizzare la vita dei singoli cittadini, era sicuramente pignolo e burocratico, ma nessuno può negare che sia stato l’artefice della crescita dell’Europa, della sua integrazione e colui che ha messo in moto il meccanismo che ha portato all’allargamento dell’Unione Europea e all’Euro.
Nato nel 1925 a Parigi, non ha mai fatto parte di quella élite destinata da occupare i posti chiave dell’amministrazione. Socialista, ma iscritto ai Giovani Lavoratori Cristiani (“non sono mai stato affasciato da marxismo e comunismo”), lavorò in banca, poi studio da economista in una organizzazione sindacale e si fece notare per la sua etica del lavoro e la sua correttezza. Il socialista Francois Mitterrand, quando divenne presidente della repubblica francese, lo volle ministro dell’economia. Lo sostenne sempre quando lui diceva no ai suoi colleghi ministri che volevano spendere in deficit, anche se poi agli stessi ministri molto gauche diceva di Delors: «Odora di sacrestia».
E quando nel 1985, andava scelto il nuovo capo della Commissione Europea, i francesi ebbero gioco facile a far accettare Delors. A cominciare dai rigoristi tedeschi. Cominciò così una avventura che trasformò la Comunità Europea nella Unione Europea: barriere e dazi che caddero, una politica agricola comune, libertà di movimento con il trattato di Shengen, fino al Trattato di Maastricht che aprì la strada per la moneta unica. Certo, quel trattato era un moloch burocratico che spostava i poteri dalle singole nazioni alla Commissione Ue e questo non piaceva ai sovranisti di tutte le razze e di tutti i colori. Come non piaceva alle aziende che perdevano privilegi monopolistici o che dovevano attenersi alle nuove regole sul lavoro e la concorrenza.
Nel 1993, Delors capì che la sua stagione europea stava per esaurirsi. E si ritirò in modo discreto. Rientrato a Parigi nel 1995, tutti lo davano sicuro candidato socialista che avrebbe potuto succedere a Mitterrand, i sondaggi gli erano favorevoli, ma lui in televisione annunciò che non si sarebbe candidato aprendo così le porte dell’Eliseo a Jacques Chirac.
Di Europa ha sempre continuato a occuparsi fino agli ultimi giorni. Dietro le quinte, in silenzio, sapendo perfettamente che solo una Europa forte e unita, non avvelenata dai veleni nazionalisti, può navigare nel mare tempestoso del mondo di oggi.