“Più che una guerra, stiamo combattendo una guerra d’informazione”. Così l’ambasciatore della Federazione Russa alle Nazioni Unite, Vassily Nebenzia, ha chiuso l’evento organizzato dalla Russia al Palazzo di Vetro martedì. Prendendo spunto dal documentario “Journalists under Fire” (che sarà rilasciato dalla RT entro la fine del 2022), Nebenzia ha cercato di far discutere giornalisti e diplomatici su quella che è stata definita, dalla missione di Mosca, “una vera e propria guerra dell’informazione contro la Russia, scatenata dai paesi occidentali, dove usano tutto il loro potere e gli strumenti disponibili sull’arena globale al fine di diffondere falsi e disinformazione sulla Russia, distorcere fatti, manipolare il pubblico opinioni e distorcere la realtà oggettiva”.
Nella Conference Room 11 però sono venuti in pochissimi: con i corrispondenti delle testate e agenzie russe, solo altri tre giornalisti “non russi”: uno di “Sky News Arabia”, e altri due giornalisti occidentali: la collega Valeria Robecco dell’Ansa e chi scrive queste righe. Diplomatici di altre missioni? Non ne abbiamo visti.

Secondo la “concept note”, la missione russa stava cercando con questo evento, di mettere in risalto come l’Ucraina e l’Occidente volessero “demonizzare la Russia e le sue politiche, soprattutto nel contesto dell’operazione militare speciale, che la Russia conduce in esercizio dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”.
Quindi, secondo quanto si legge sempre nella nota all’evento, “in mezzo a questa guerra dell’informazione, la necessità di avere accesso a informazioni verificate e veritiere i dati sugli sviluppi attuali appaiono cruciali. Quando si tratta di speciale operazione militare, una delle poche fonti di resoconti imparziali basati sui fatti sono i corrispondenti nelle zone di guerra”.
Il documentario mostrato fornisce un resoconto di prima mano del lavoro dei corrispondenti di guerra russi nella zona dell’ “operazione militare speciale” in Ucraina.
Hanno participato collegati poi in diretta con l’ONU, il regista Artyom Somov, l’autore della sceneggiatura Ruslan Gusarov, e alcuni dei corrispondenti di guerra il cui lavoro era stato mostrato durante il documentario: Evgeny Poddubniy, corrispondente di guerra per VGTRK e nato e cresciuti in Donbass; Semyon Pegov, corrispondente di guerra indipendente, autore del Progetto WarGonzo e che dice nel documentario che essendo un “poeta”, decise di fare il giornalista perché con le sue poesie non poteva guadagnare abbastanza per vivere.

Sempre secondo la missione russa, a parte le minacce e i pericoli che sono tradizionalmente associati alle ostilità, i corrispondenti sono esposti alla pressione di alcuni governi che impongono sanzioni individuali ai corrispondenti solo perché la loro copertura non si adatta alla narrativa promossa da quegli stati. Secondo i diplomatici russi tali misure costituiscono una grave violazione della libertà di parola e i principi fondamentali della libertà dei media e del giornalismo e quindi deve essere condannato con la massima fermezza.
Nel documentario ad un certo punto si vedono giornalisti feriti e si viene anche a sapere che uno di loro – Eugeny Poddubniy- sarebbe “ricercato” con una “taglia” dalle autorità ucraine che da mesi cercherebbero di ucciderlo.

Poddubniy, al momento del collegamento al Palazzo di Vetro dirà: “Noi dobbiamo lottare per la verità. I giornalisti occidentali non hanno alcun accesso a quello che vediamo, ma facciamo un buon lavoro, e se vediamo nero lo chiamiamo nero, se è bianco lo raccontiamo bianco. Siamo professionisti e non diamo alla nostra audience notizie non confermate ed esponiamo le menzogne dell’Occidente”.
Al momento delle domande un collega russo, Alan Bulkaty, di “Ria Novosti”, chiede: “Kiev ti sta dando la caccia per ucciderti. Darete alle Nazioni Unite delle prove di questa persecuzione?”
La risposta: “La chiamo ‘tattica terroristica’ iniziata dal 2015. Molte strutture politiche ucraine ne prendono parte, insieme a organizzazioni neo-naziste. Kiev organizza una vera e propria caccia ai giornalisti e offre una taglia a chi li cattura”.
Anche la Tass chiede se sono pronti a dare le prove alle Nazioni Unite: “La nostra non è una investigazione” rispondono, “è un documentario. Ma è chiaro che per un giornalista russo i rischi son maggiori perché l’Ucraina li ha come obiettivi, paga chi li colpisce”.
Robecco dell’ANSA chiede cosa pensano dei giornalisti occidentali che lavorano dall’altra parte del fronte, come giudicano i reporter russi il lavoro dei colleghi occidentali: “Fanno solo propaganda” viene risposto, con l’aggiunta: “Si vede lo stato della libertà di informazione in Occidente, persino all’ex presidente Trump è stato impedito di comunicare su twitter…”.

Noi chiediamo cosa pensano del fatto che molti giornalisti occidentali hanno dovuto lasciare la Russia perché rischiavano la galera se avessero scritto o chiamato la guerra in Ucraina, “guerra”, invece che “operazione militare speciale”. E poi, per loro che stanno al fronte, si tratta o no di una guerra quella di cui riportano? Qui è intervenuto l’ambasciatore Nebenzia, per dire la sua: “Non mi risulta che alcun giornalista occidentale sia stato arrestato in Russia per aver chiamato l’operazione militare speciale in un altro modo. La loro era una scusa…”. I giornalisti collegati dal Donbass, rispondono: “Questa questione terminologica non ci preoccupa, se chiamassimo guerra l’operazione militare speciale non ci accadrebbe nulla”. E un’altro, Gusanov, aggiunge: “La lingua russa è molto ricca. Il nostro film è sui corrispondenti di guerra che coprono molte cose, operazioni militari e combattimenti. Senza fare propaganda”.
Alla fine, l’ambasciatore Nebenzia afferma ciò su cui siamo d’accordo: tra Ucraine e Russia si sta combattendo soprattutto “una guerra d’informazione”.