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March 3, 2022
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Riforma Consiglio di Sicurezza dell’ONU: eppur si muove

Nessuna riforma che rispetti i principi della democrazia, della responsabilità e della rappresentatività può accettare la creazione di nuovi seggi permanenti

Damiano BeleffibyDamiano Beleffi
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25 Febbraio 2025: Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il momento del voto della risoluzione sull'Ucraina presentata da Stati Uniti e Albania: la Russia ha posto il veto

Time: 5 mins read

Eppur qualcosa si muove nella riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, anche se pochi se ne sono accorti.

Accomunati spesso alle fatiche di Sisifo da chi li frequenta assiduamente, i negoziati intergovernativi sulla riforma del Consiglio di Sicurezza hanno ripreso lo scorso gennaio nell’ambito di sessioni informali dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Nella loro configurazione attuale, i negoziati sono il risultato della decisione 62/557, adottata il quindici settembre 2008 dall’Assemblea Generale dell’ONU a termine di una sessione caotica, conclusasi in tardissima serata. Già l’inizio portava dunque i segni di un processo negoziale laborioso.

La decisione 62/557 prevede che i negoziati si basino sulle proposte degli Stati membri, dei gruppi regionali e altri di gruppi negoziali e stabilisce che la riforma del Consiglio di Sicurezza debba fondarsi sul più ampio consenso politico possibile. Formula, questa, che ancor oggi è oggetto di interpretazioni divergenti, che variano dall’idea di una maggioranza a due terzi fino a quella di un consenso che abbraccerebbe l’intera Assemblea.    

Inoltre, la decisione indica esplicitamente i cinque temi della riforma: le categorie di membership; la questione del veto; la rappresentanza regionale; le dimensioni di un Consiglio di Sicurezza allargato e i relativi metodi di lavoro; le relazioni tra il Consiglio e l’Assemblea Generale.

Nel corso degli anni, le discussioni sulla riforma del Consiglio di Sicurezza si sono concentrate su questi temi e sulle loro interrelazioni, continuando ad aggiungere al processo negoziale strati di complessità nel momento in cui si affacciavano nuove implicazioni fino allora rimaste sottotraccia.

Per esempio, la relazione tra la creazione di nuovi seggi permanenti e il diritto di veto appare evidente, mentre meno lineare risulta il rapporto tra l’espansione nella suddetta categoria di seggi e la rappresentanza regionale, giacché i membri permanenti del Consiglio rappresentano solo se stessi e non il loro gruppo regionale. Come conciliare allora la posizione del Gruppo Africano (sancita nel Consensus di Ezulwini) che reclama la fine di un’ingiustizia storica che li vede da sempre sottorappresentati nel Consiglio con la richiesta di due nuovi seggi permanenti allocati al suo gruppo regionale?

Diversificate sono poi le implicazioni di un’estensione nelle due categorie di membership (membri permanenti e non permanenti) sui metodi di lavoro del Consiglio di Sicurezza. Un’estensione solo dei seggi non permanenti potrebbe ridurre o almeno indebolire la presa dei P5 (USA, Cina, Russia, Regno Unito e Francia) sul governo del Consiglio, mentre la creazione di nuovi membri permanenti a discapito dei seggi elettivi finirebbe per consegnare i membri non permanenti al ruolo di semplici comparse.

A ciò si aggiungono i problemi di ordine contabile nella determinazione di nuove maggioranze per l’adozione delle decisioni, senza contare, inoltre, che con nuovi membri permanenti si potrebbero vedere nel Consiglio più Stati con diritto di veto.  Se consideriamo le critiche spesso rivolte al Consiglio di Sicurezza per la sua incapacità di agire in situazioni di emergenza, come sposare questo ipotetico scenario con la richiesta di un Consiglio di Sicurezza più efficiente?

I cinque cluster della riforma devono quindi essere considerati nelle loro relazioni reciproche, ma questa complessità non giustifica da sola lo stallo del processo negoziale.

A chi però contesta che il processo non abbia prodotto nulla, occorrerebbe spiegare che negli ultimi tredici anni i negoziati intergovernativi hanno dato vita a documenti che riassumevano le posizioni degli Stati membri e dei vari gruppi negoziali sui cinque temi.  Vere e proprie raccolte antologiche contenenti le diverse visioni della riforma del Consiglio di Sicurezza dell’intera membership, o quasi, perché, anche in questo caso, ci sono stati Paesi che le hanno viste più come un pericolo che un aiuto per il buon esito del processo negoziale.

Negli ultimi anni, si è però affermata la prassi di aggiornare, al termine di ogni ciclo negoziale (gennaio/febbraio – maggio), un non paper dei Co-Chairs che presenta, da una parte, gli elementi di convergenza della riforma e, dall’altra, quelli che necessitano di un ulteriore discussione, separando in tal modo le parti sulle quali ci sarebbe un accordo da quelle sulle quali le posizioni sono ancora molto distanti, per non dire inconciliabili. Si tratta di uno strumento utile alla riforma, basato sull’idea di un negoziato lungo, in cui sia possibile costruire ponti fra posizioni diverse attraverso il dialogo.   

Il tema delle categorie di membership è senza ombra di dubbio quello sul quale si consuma la frattura più ampia fra i Paesi ed è forse la ragione principale per cui non si è ancora pervenuti a una bozza di riforma del Consiglio di Sicurezza.

Oltre a un’espansione nei seggi non permanenti, Giappone, India, Brasile e Germania (Gruppo G4) chiedono un seggio permanente per loro stessi, il Gruppo Africano chiede due seggi permanenti senza indicare a quali Paesi andrebbero assegnati e così per il Gruppo Arabo, che ne chiede uno per sé. L’idea di un’estensione del Consiglio nelle due categorie di membership è sostenuta dalla Francia, Regno Unito e U.S.A. anche se con sfumature diverse, dal Gruppo L.69, i Paesi Nordici, e altri ancora. In sostanza, può dirsi che l’idea di un’espansione in entrambe le categorie abbia una base piuttosto ampia alle Nazioni Unite.

Lana Nusseibeh, Ambasciatrice degli Emirati Arabi Uniti all’ONU durante la votazione al Consiglio di Sicurezza che estende l’embargo sulle armi a tutti i ribelli Houthi in Yemen (UN Photo)

Chi si oppone dall’inizio a questa visione della riforma è il Gruppo denominato Uniting for Consensus (UfC), guidato dall’Italia, di cui fanno parte il Pakistan, Repubblica di Corea, Colombia, Messico, Argentina, Malta, Canada, San Marino e Costa Rica. Si tratta di un gruppo a prima vista eterogeneo, che ha trovato però una identità forte nel progetto di una riforma che si propone di rendere il Consiglio di Sicurezza più democratico, trasparente, accountable e rappresentativo.

Tenuto conto di questo obiettivo, nessuna riforma che intenda integrare i principi della democrazia, dell’accountability e della rappresentatività può accettare la creazione di nuovi seggi permanenti proprio perché la natura democratica di un nuovo Consiglio di Sicurezza allargato è garantita solo attraverso elezioni periodiche dei suoi membri, così come il principio di responsabilità dei Paesi nei confronti dell’intera membership delle Nazioni Unite.

A riprova della sua genuina volontà di ricerca di un compromesso, l’UfC è stato l’unico gruppo negoziale a cambiare la sua posizione originaria, che prevedeva l’espansione solo dei seggi non permanenti con durata biennale, proponendo la creazione di una nuova categoria con un mandato più lungo e la possibilità di rielezione immediata, in modo da venire incontro alle aspettative di quei Paesi che intendono servire il Consiglio per un periodo più lungo. Questa proposta ha l’indubbio merito di salvaguardare il principio democratico della riforma.

Ciononostante, l’UfC è stato talvolta visto come un ostacolo al processo di riforma per la sua ferma opposizione, insieme ad altri Paesi, a un testo da usare come base per i negoziati.

L’UfC sostiene invece che sarebbe preferibile mettersi prima d’accordo sui principi base della riforma, perché gli Stati membri sembrano avere idee diverse sul significato di un Consiglio di Sicurezza più democratico, pur affermando tutti di perseguire questo obiettivo. Inoltre, un testo scritto finirebbe per cristallizzare le divisioni in seno all’Assemblea Generale e determinerebbe, con ogni probabilità, la fine dei negoziati stessi.

Con la ripresa del nuovo ciclo del processo negoziale, ci sembra di aver già visto e ascoltato tutto, come se tutte le possibilità fossero state esaurite e non rimanesse che assistere a un eterno ritorno. Tuttavia, la diplomazia ci ha insegnato che nei processi negoziali, quando tutto sembra irrecuperabile, si può arrivare più facilmente a una soluzione condivisa.      

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Damiano Beleffi

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