La professoressa Marinella Pacifico è senatrice per il Gruppo Misto. Dal 2018 è membro della III Commissione permanente Affari Esteri e Emigrazione presso il Senato della Repubblica. Ricopre inoltre l’incarico di segretaria del comitato parlamentare Europol, Schengen ed Immigrazione. È infine presidente della Sezione bilaterale di amicizia Italia-Tunisia in ambito UIP (Unione interparlamentare).
In questi giorni in cui non si parla altro che di politica estera, le abbiamo posto alcune domande sul posizionamento internzionale dell’Italia. Ma su altre aree a elevato rischio.
I media parlano spesso di Afghanistan o di Ucraina. Ma le zone “calde” non sono solo quelle….

“In effetti, i media continuano a focalizzare come epicentro di crisi, quasi esclusivamente la Libia e l’Afghanistan, proprio perché l’opinione pubblica e la politica americana osservano teatri dove sono impegnati. Per noi europei il discorso è un po’ più complesso. Dobbiamo considerare che l’80% dei flussi immigratori che giungono in Europa, attraversano quel corridoio africano che corre dall’Oceano Atlantico fino alle coste somale e va sotto il nome di Sahel. E spesso, l’immigrazione è usata e gestita da gruppi terroristici che controllano pezzi importanti di quella regione”.
Una delle zone più a rischio è certamente il Sahel. Secondo l’UNHCR, sarebbero più di 2,5 milioni le persone costrette a fuggire negli ultimi dieci anni da questa zona soprattutto a causa degli scontri violenti in atto…
“Sì, il Sahel continua ad essere uno snodo importante per le politiche migratorie riguardanti il nostro continente. Sapere poi che i flussi possono essere gestiti da gruppi terroristici, innesca un problema di sicurezza nazionale. 2-3 milioni di profughi indirizzati verso un solo Paese, possono determinare la stabilità dello stesso”.
In pochi anni il Sahel è passato da essere un territorio semi-sconosciuto e marginale ad area strategica. A gennaio 2020 uno dei temi discussi al Vertice di Pau, Francia-G5, riguardava proprio questa area. Sotto l’aspetto diplomatico, in Africa, l’Italia ha la metà delle ambasciate di altri Stati europei quali Germania o Francia. Infatti, si era parlato di aprire una sede sulle rive del Niger ed era stato nominato Bruno Archi come inviato speciale proprio per il Sahel.
“L’interesse dell’Italia, fino a qualche decennio fa, per i Paesi del Sahel era praticamente superfluo, un po’ perché la Francia con la sua tradizione e storia aveva rapporti esclusivi con i governi di questi paesi, ma anche perché le centrali terroristiche si annidavano in Medio Oriente. Anche le tratte migratorie erano diverse. Riguardavano i Paesi africani rivieraschi del Mediterraneo e la regione del Corno d’Africa. Oggi invece il crocevia del traffico di esseri umani avviene a sud del Sahara e le organizzazioni terroristiche jihadiste hanno trovato terreno fertile in quei quattro-cinque Paesi del Sahel. Proprio per i motivi di cui sopra, la regione è diventata strategica, anche in considerazione dell’attenzione dei russi per l’area, ma soprattutto per l’attenzione della Cina a sfruttare i minerali del sottosuolo, oramai indispensabili per le produzioni industriali”.

Nei giorni scorsi si è tenuta una riunione del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica e il controllo dei Servizi segreti) dove si è parlato, oltre che della crisi in Ucraina, anche del Sahel. Adolfo Urso, presidente del Copasir ha dichiarato “il Sahel è l’area di maggiore espansione del terrorismo islamico, dopo la caduta di Kabul, terra di conquista dello jihadismo”. Qual è il ruolo dell’Italia in quest’area?
“È bene che l’Italia si occupi in modo più approfondito, attraverso il Copasir, del Sahel, che deve analizzare anche a livello di intelligence, proprio perché in quella fascia geografica si è saldata una alleanza di organizzazioni terroristiche che spaziano dalla tradizionale lotta terroristica alla tratta di essere umani ed al controllo degli stupefacenti della fascia atlantica. L’Italia, purtroppo, ha avuto un ruolo non da protagonista. Abbiamo accettato un ruolo subalterno a Parigi sia in campo diplomatico che militare. In pratica abbiamo condiviso i rischi militari senza alcun vantaggio. Infatti, consapevoli oramai di questa condizione, l’Italia sta cercando di recuperare con nuove sedi diplomatiche e la creazione di strutture commerciali”.

L’Italia fa parte del dispositivo di sicurezza internazionale task force Takuba, una missione militare che vede il nostro Paese e altri 13 eserciti europei proprio nella regione africana del Sahel (soprattutto in Mali) per contrastare il traffico di persone e i gruppi di estremisti che infestano la regione, inclusi lo Stato islamico e al Qaida. Recentemente, però, alcuni paesi della Task Force pare vogliano abbandonare la missione. Nel 2021, il governo Draghi ha inviato militari specializzati ed elicotteri (tre elicotteri per le evacuazioni, tre di appoggio) col compito di eseguire le missioni Medevac per il soccorso ad altri soldati della missione internazionale. Che succederà se altri paesi abbandoneranno la missione?
“La missione è evidente che non appaghi le ragioni per cui è stata formulata. Appare, ora, ancora più complicata per l’ingresso di altri attori, che di fatto hanno soppiantato quell’apparato francese, intrinseco alla farraginosa macchina amministrativa dei governi locali. Tendenzialmente per avere significativi riscontri nelle pacificazioni dei popoli, si deve evitare che il pacificatore possa essere accusato di essere di parte. Così è stata vista la Francia con il suo trascorso di Paese colonizzatore. E proprio in queste ore, al vertice con l’Unione Africana, l’Eliseo ha annunciato il ritiro dal Mali per spostarsi in altre aree. Il tema delle ondate migratorie forse è lo scoglio più difficile da affrontare per un Paese democratico. Vi sono aspetti umanitari, di sicurezza, di salute e di impatto sociale che devono trovare punti di equilibrio e di accettazione popolare molto difficili. Ma una moderna democrazia è tenuta ad affrontarli. L’idea di ergere muri, oltre ad aver poco effetto pratico, inficia alla base i processi democratici. La giusta sintesi si raggiunge con il coinvolgimento di tutti i protagonisti, con chiare direttive UE e con gli accordi di reciprocità per i rimpatri. Credere di fermare le migrazioni è come credere di fermare il vento con le mani. Quello che si può fare è governare il fenomeno. La coalizione dei 13 Paesi si è di fatto sfaldata, proprio per il mancato raggiungimento degli obiettivi iniziali. Credo che la missione vada rivista completamente, ponendo uno o due obiettivi da fare condividere ai governi africani coinvolti”.
Il tema dei migranti che giungono in Italia da Tunisia e Libia è da tempo uno dei punti fermi del governo Draghi. A ottobre, durante l’informativa in Senato sul prossimo Consiglio Ue, Draghi ha dichiarato: “L’Unione europea deve prestare attenzione alle specificità delle frontiere marittime e alla stabilità politica di Libia e Tunisia”. Qual è la situazione attuale?
“Partiamo dalla situazione attuale. In questo ultimo anno, abbiamo visto crescere di molto l’ingresso in Italia di una moltitudine di immigrati provenienti dalla Tunisia e dalla Libia, seppure con modalità diverse. Alcuni di loro sono stati indotti ed altri sono arrivati spontaneamente. Pensare di risolvere l’esodo da soli è pura demagogia. È scontato che fin quando non ci sarà la completa stabilizzazione della Libia, ci saranno migliaia di persone disperate che tenteranno la traversata illegale per raggiungere l’Italia e quindi l’Europa. I cittadini tunisini, invece, arrivano in Italia esclusivamente per motivi di carattere economico. Così, aiutare a superare la crisi economica tunisina, ridurrebbe di molto le partenze. La Libia ha molteplici ragioni legate all’immigrazione, la crisi alimentare e quella politico-istituzionale. Fino ad ora la UE, oltre la formale solidarietà che offre, non è riuscita ad indicare una formula univoca e risolutiva. Probabilmente per la riluttanza di alcuni Paesi non coinvolti direttamente, che continuano a considerare i confini meridionali non come linea di demarcazione europea bensì come novecenteschi confini nazionali. Ed anche per questo considerano naturale la permanenza agli Stati di approdo”.

Ad aprile 2021, Draghi si è recato in Libia. È stata la sua prima missione all’estero, un gesto che sottolinea la priorità geo-strategica che ha il Mediterraneo per il governo. Cosa è cambiato da allora?
“Il presidente Draghi ha ben presente che il dossier Libia è uno degli elementi strategici per le politiche della sicurezza, dell’immigrazione e per le politiche sociali. In un periodo di crisi energetica, appare ancor più evidente la necessità di coltivare i rapporti con il governo libico, o meglio, con i governi libici”.
Quali crede sarebbero le politiche da adottare (sia a livello nazionale che internazionale) per far fronte e gestire i flussi di migranti dalla Libia?
“Non esiste una sola risposta, esistono varie politiche da modulare in riferimento al contesto immigratorio. È doveroso l’intervento dell’Italia e della UE per gli immigrati provenienti da Paesi in guerra o spinti da frange terroristiche e applicare un apparato di protezione assoluto magari anche con ponte aereo per una equa redistribuzione in tutta Europa. Per i migranti economici si potrebbe pensare alla ricollocazione attraverso un’attenta analisi di richiesta di lavoro fra tutti gli Stati UE. Non può essere solo un Paese a farsi carico di centinaia di migliaia di persone. Ci vorrebbe una regia unica europea con pari dignità dei Paesi membri avendo, attenzione al PIL, alla densità della popolazione e alla richiesta di manodopera. Insomma, la revisione della Convenzione di Dublino”.

Il tema dei migranti non è l’unico che interessa i rapporti tra Italia e Tunisia. Recentemente è scoppiato uno scandalo a proposito dei rifiuti spediti in Tunisia dalla Campania…
“La vicenda dei traffici illeciti di rifiuti è una brutta pagina dei rapporti tra l’Italia e il nostro Paese amico, la Tunisia. Ne ho già parlato in altre interviste e lo ribadisco, se qualcuno ha tentato di speculare a spese di altri, è chiaro che se ne deve assumere le responsabilità. Bene ha fatto l’esecutivo tunisino a denunciare nelle sedi deputate la vicenda ed arrivare alla soluzione. Anche in questa vicenda, la nostra storica amicizia ha permesso di superare un’impasse di difficile approccio”.
Lei ha presentato un Disegno di Legge (1973/2020) a sostegno dei proprietari di aziende agricole italiane espropriate in Tunisia. Di cosa si tratta?
“È un atto legislativo con il quale si vuole chiudere la vicenda dei beni perduti in Tunisia dai nostri connazionali, che rappresenta una questione di giustizia e di dignità per il nostro Paese e l’esigenza fondamentale di credibilità delle nostre istituzioni”.
Nel ringraziare la Senatrice Pacifico per le risposte che ci ha concesso, sentiamo di avere una visione più chiara di quello che a volte può essere il ruolo di “parlamentare”. L’Italia non è impegnata solo sul “fronte” Ucraina, ma in tanti altri paesi. E per ciascuno di questi, gli argomenti da approfondire sarebbero tanti. E tutti importanti sia sotto il profilo della sicurezza, ma anche dell’ambiente e soprattutto dei diritti umani. Ma quello che emerge sempre di più con chiarezza è che, ormai, tutti i paesi sono legati in un intreccio di scambi (non solo commerciali) e di rapporti che rendono praticamente impossibile immaginare una chiusura come quella che alcuni in Europa auspicano.
(Un ringraziamento speciale alla dott.ssa Vanessa Tomassini Ufficio Stampa per la sua collaborazione)