Nel cuore dell’Asia si rischia una catastrofe. Il mondo guarda con orrore in Myanmar, dove l’esercito birmano continua la repressione dei civili. E a due mesi dal colpo di stato del 1° febbraio, il paese scivola sempre di più verso la guerra civile. “Per prevenire un bagno di sangue“, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dovrà valutare “azioni potenzialmente significative” ha avvertito l’inviata speciale delle Nazioni Unite, Christine Schraner Burgener.
Attraverso la politica del terrore, la giunta militare continua a chiudere il dialogo e a violare il diritto internazionale, commettendo crimini contro l’umanità e sfidando la comunità internazionale. Ogni giorno, si ripetono scene di violenza raccapriccianti. Da quando la leader Aung San Suu Kyi è stata imprigionata insieme ad altri esponenti del suo partito, le vittime dei cecchini golpisti sono state più di 520 e secondo i dati delle Nazioni Unite almeno 44 erano bambini. Altre migliaia di persone sono rimaste ferite o sono scomparse e finora, l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici ha denunciato 2.729 arresti.

Nello Stato di Karen, i combattimenti tra l’esercito del Myanmar e i gruppi armati etnici hanno costretto oltre 4.000 persone ad attraversare il confine e rifugiarsi in Thailandia.
A soffrire più di tutti rimangono inevitabilmente i Rohingya. E la situazione rischia di provocare il fallimento dello stato di diritto. Su tutto, a complicare un quadro già devastante è la crisi sanitaria dovuta alla pandemia COVID-19, che ha già messo in ginocchio il fragile settore della sanità pubblica.
L’esercito birmano, intanto, ha ordinato un’ulteriore stretta sulle comunicazioni, sospendendo i servizi internet e wireless, paralizzando così le notizie. Solo nella giornata odierna 56 giornalisti sono stati arrestati, e durante la repressione, molti giovani ragazzi hanno cercato di difenderli rischiando la vita. Hanno scattato fotografie con i loro smartphone per documentare la brutalità dei militari e poterli condividere online. Ma l’obiettivo del regime sembra quello di voler tornare indietro nel tempo a quando i militari governavano il paese, controllavano i media e solo le persone più ricche avevano accesso ad Internet. La nuova generazione però, cresciuta con il web, non è intenzionata a rinunciare alle proprie libertà senza combattere. “Non ci arrenderemo mai” hanno scritto i giovani del movimento di disobbedienza civile che durante la protesta di oggi hanno riempito di fiori i ritratti dei loro caduti.
“I leader militari hanno chiaramente dimostrato di non essere in grado di gestire il Paese“, ha commentato l’inviata speciale dell’Onu ricordando ai membri del UNSC che la storia giudicherà la loro inerzia.

Sul Myanmar, il Consiglio di Sicurezza ha da sempre mostrato una difficile unità a causa della resistenza dei due membri permanenti Russia e Cina. Il viceministro della Difesa, Alexander Fomin, nel giorno dell’orrore, si è presentato davanti alle telecamere sulla tribuna d’onore delle forze armate, che indistintamente sparavano sui manifestanti.
Durante uno stakeout, l’ambasciatrice USA, Linda Thomas-Greenfield, ha precisato ai giornalisti di conoscere le linee di contrasto con i “colleghi russi e cinesi”. Ma “in qualità di principale diplomatico statunitense” al Palazzo di Vetro, si è detta impegnata a trovare un punto di incontro. Ha avvertito però che non darà “spazio a nessuno dei due paesi quando si stanno infrangendo i valori dei diritti umani”. “Quello che stanno facendo i militari al popolo birmano – ha aggiunto – è spaventoso e inaccettabile. Non possiamo fare un passo indietro, dobbiamo solo continuare a spingere in avanti”. Come segno di irrigidimento dei rapporti con gli americani, in seguito all’ondata di violenze, il Dipartimento di Stato USA, attraverso la voce del segretario di Stato, Antony Blinken, ha ordinato ai diplomatici non indispensabili di lasciare la Birmania, mentre si valutano ulteriori provvedimenti.
Non concorda la Cina, che durante le consultazioni del 31 marzo, ha chiarito la sua posizione. “La pressione unilaterale e la richiesta di sanzioni o altre misure coercitive non faranno che aggravare la tensione”. Precisando che è nell’interesse comune costruire il consenso all’interno del Consiglio di Sicurezza, come paese amico e vicino, i cinesi ritiengono che la comunità internazionale debba svolgere un ruolo attivo incoraggiando le parti a trovare una via d’uscita, ma rispettando comunque il principio di sovranità e di non ingerenza.

Secondo il rappresentante Onu del Viet Nam, Dang Dinh Quy, appena subentrato agli Usa come presidente del Consiglio di Sicurezza per aprile, tutti i membri hanno ribadito il loro invito ai a “rispettare pienamente i diritti umani” e hanno anche preso atto della richiesta del Segretario Generale del 27 marzo per una risposta ferma, unificata e risoluta da parte della comunità internazionale.