Sono state settimane cruciali per la Libia, da anni terra di conflitto a poche miglia dallo Stivale, di cui l’opinione pubblica si ricorda solo quando qualche barcone tocca le nostre coste. L’intervento massiccio della Turchia di Erdogan, ormai player imprescindibile, ha praticamente rovesciato le sorti del conflitto, disinnescando le mire dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. Ma non è stato questo, se mai non fosse abbastanza, l’unico effetto sortito dell’intervento del “sultano”: oltre a intricare ulteriormente quel coacervo di interessi e interferenze che segnano da sempre il destino della Libia, l’azione di Ankara è riuscita persino a smuovere una reazione da parte degli Stati Uniti di Donald Trump, da tempo platealmente “disinteressati” al dossier.
Il brusco risveglio degli USA
Trump fece scalpore quando lo scorso anno, dopo una telefonata con il generale Haftar, impresse – su consiglio dell’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton – un’inversione a U nella posizione di Washington, tradizionalmente a favore del Governo di accordo nazionale sostenuto dall’ONU e guidato da Fayez al Sarraj. In questa chiave, può essere meglio inquadrata la recente telefonata di Trump ad Erdogan, per esprimere nuovamente “preoccupazione in merito al peggioramento dell’interferenza straniera in Libia e la necessità di una rapida de-escalation”.
Verosimilmente allarmati dalla prospettiva di un consolidamento della presenza russa nel Mediterraneo in risposta all’attivismo turco, gli Stati Uniti sembrano insomma essere improvvisamente usciti dal “torpore”: qualche giorno fa, una loro delegazione guidata dall’ambasciatore Usa in Libia, Richard Norland, e dal comandante generale di Africom, Stephen Townsend, ha incontrato i vertici di Tripoli “per promuovere un cessate il fuoco e un dialogo politico”. Segnale che il dossier libico, sempre più caratterizzato dalle “interferenze” di cui sopra da una parte e dall’altra, sta diventando sempre più bollente.
L’analisi di Ghassan Salamé
E di “interferenze” ha parlato più volte, durante i due anni e mezzo in cui è stato inviato ONU in Libia, il libanese Ghassan Salamé, che, proprio nelle ore in cui il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio si trovava a Tripoli per una visita-lampo, conversava con il direttore dell’ISPI Paolo Magri nell’ambito dell’iniziativa Rome Med 2020, in merito, tra le altre cose, al ruolo dell’ONU e delle potenze straniere nel mai decollato processo di pace. Una conversazione pregna e schietta, “liberata” dei limiti che i panni di mediatore per le Nazioni Unite imponevano, limiti che pure – soprattutto nell’ultimo periodo prima delle dimissioni – non gli avevano impedito di denunciare a chiare lettere l’inazione della comunità internazionale e gli interessi contrapposti che hanno incancrenito la crisi. Ma le parole di Salamé – uomo che, per sua stessa ammissione, ha dato tutto se stesso alla Libia per più di un biennio – sono un contributo prezioso per capire che cosa, in effetti, non abbia funzionato in quel dossier e in molti altri nella regione.
La crisi del multilateralismo
Primo punto di un’analisi ricca e sfaccettata riguarda il multilateralismo e l’annosa questione della rilevanza delle organizzazioni internazionali, specialmente in tempo di pandemia: “Quando il Consiglio di Sicurezza è incapace di produrre una risoluzione sul Covid, come fece su Ebola anni fa, mi preoccupo. Se le persone cominciano a guardare all’Europa dicendo: ‘È un’organizzazione irrilevante, non mi aiuta come Stato membro’, mi preoccupo. Se la Lega Araba non fa nulla per i Paesi arabi in merito alla pandemia, mi preoccupo. Se gli Stati Uniti decidono di non contribuire più all’Oms, mi preoccupo”.
La crisi del multilateralismo è stata al centro dell’analisi del diplomatico, che ha voluto sottolineare come ogni sovrapposizione con il concetto di globalizzazione sia impropria: e mentre ripensamenti su quest’ultima sono comprensibili, “il multilateralismo è più che mai necessario”. A suo avviso, i sostenitori di tale approccio sono da tempo sulla difensiva, mentre i suoi avversari – coloro che sostengono la chiusura dei confini, il nazionalismo, che mettono in dubbio la cooperazione internazionale – sono sempre più “vocali”. L’ex inviato ONU in Libia ha quindi sottolineato la necessità che si contribuisca alla sopravvivenza del multilateralismo con “nuove idee” e persino “nuove istituzioni, se quelle attuali non funzionano come dovrebbero”: “ma non possiamo affrontare questioni globali localmente”.
Quella del multilateralismo è una crisi che si riflette, anche, nell’estrema debolezza delle istituzioni che più ne sono rappresentative: in primis, l’ONU. Salamé ha ricordato come il Segretario Generale abbia chiesto più volte, dall’inizio della pandemia, un cessate il fuoco per i Paesi in conflitto, in modo da permettere ai Governi di concentrarsi sulla lotta contro il Covid-19: “Non è accaduto”, ha spiegato, anche perché il Consiglio di Sicurezza non ha sostenuto la proposta. Il risultato è che, in un contesto come quello libico, la minaccia “invisibile” e fino ad oggi non così numericamente rilevante del Covid non ha potuto mettere in pausa la guerra, che da sempre “ha una sua logica”.
Gli errori dell’Europa
Proprio in merito al dossier libico, Salamé ha confessato di aver fatto del proprio meglio per “radunare l’Ue e quattro potenze europee – gli inglesi, i francesi, i tedeschi e gli italiani – intorno a un tavolo a Berlino”, in occasione della Conferenza sulla Libia lo scorso gennaio. Un’opportunità che i Paesi europei, ha proseguito il diplomatico, hanno perso, anche se “possono ancora lavorare sulle conclusioni”, alcune delle quali, a suo avviso, sono “cruciali”. Ma l’analisi di Salamé in merito all’impegno della comunità internazionale sulla Libia è impietosa: gli americani, ha detto, hanno rinunciato al proprio ruolo di “sceriffi”, il Consiglio di Sicurezza è diviso, e gli europei “non sono abbastanza seri nel loro ruolo di promuovere la pace”. E riferendosi a questi ultimi, Salamé ha affermato: “Non sono stato in grado di convincerli che Berlino era una grande occasione per loro”. E ha proseguito: “Non sono certo che avranno un’altra opportunità come quella. Potrebbe essere già troppo tardi”.
E se gli americani sono stati spesso accusati di essere “ossessionati” dalla guerra al terrorismo, “non credo che gli europei siano migliori, con la loro ossessione per la migrazione”. Questo, ad avviso di Salamé, è il grande errore commesso dall’Europa nel dossier libico: “Come se la migrazione potesse essere ‘risolta’ senza che emerga un assetto legittimo e unificato in Libia”. Quel modo di pensare, insomma, è sintomatico di un approccio miope, concentrato sulle minacce imminenti piuttosto che su quelle di lungo periodo: proprio come la convinzione che si possa efficacemente combattere il terrorismo, “scorporando” quella battaglia dalla cornice politica e sociale locale. Per l’ex capo dell’UNSMIL, il problema non è tanto “unire” gli europei, quanto “muoverli”: l’Europa, insomma, deve ritagliarsi un ruolo più proattivo nei dossier più delicati, dismettendo i panni di “banchiere della pace” che ha indossato fino ad oggi. Per Salamé, deve ancora arrivare il giorno in cui l’Europa dirà: “Se continui a interferire in Libia, smetterò di investire nel tuo Paese”.
La debolezza dell’ONU
Qual è il ruolo dell’ONU in questo quadro? Le Nazioni Unite, afferma Salamé senza giri di parole, “sono in pessima forma”. Questioni come il cambiamento climatico e la parità di genere sono molto importanti, prosegue, ma il principale ruolo dell’ONU “è quello di produrre pace e sicurezza”. Un ruolo che negli ultimi anni è stato messo in discussione, e a cui l’organizzazione, al momento, sembra avere abdicato. “L’ONU è nato per quello, un organismo per la sicurezza collettiva”, ricorda il diplomatico, che dà un nome preciso al “cancro” che, a suo avviso, sta condannando l’organizzazione all’immobilismo: siamo di fronte, ha detto, a una “deregolamentazione della forza”. Negli anni Ottanta, la minaccia era la deregulation finanziaria: oggi, ha spiegato, è il fatto che chiunque abbia i mezzi e sia più o meno libero da costrizioni di natura legale o costituzionale a livello interno, possa decidere di usare la forza per perseguire i propri interessi senza che nessuno glielo impedisca. “È questo”, ha sottolineato Salamé, “che rende le democrazie deboli”.
Così, nel tracciare la sua analisi su ciò che incancrenisce, oggi, l’azione di un’organizzazione come le Nazioni Unite, si scorgono in controluce le difficoltà e gli ostacoli contro cui si è scontrato l’ex capo della missione ONU in Libia e che, verosimilmente, lo hanno portato alle dimissioni: “Alcune volte, gli ingredienti per trovare un accordo ci sono, ma è l’ambiente internazionale a non essere favorevole”. Come a dire: se manca la compattezza e la risolutezza della comunità internazionale, l’obiettivo della pace non potrà mai essere raggiunto. “Nessun mediatore al mondo”, ha osservato Salamé, “può fare progressi se quelli con cui negozia sono consapevoli che non c’è accordo tra le persone che stanno dietro di lui”: perché senza esercitare “pressione”, senza ricordare che c’è “un prezzo da pagare”, è impossibile portare a casa un negoziato. “Come affermano i Cattolici, si può peccare per commissione o omissione”, ha poi sintetizzato: spesso, le grandi potenze “ti rendono la vita difficile perché peccano per commissione, ma il più delle volte lo fanno perché peccano di omissione”.