Crescono le attese internazionali sulla conferenza di Berlino sulla Libia, che si terrà domenica 19 gennaio alla presenza di diversi attori, libici e non. E ad allungare la lista dei partecipanti, qualche ora fa è giunta la conferma della partecipazione del Segretario di Stato Mike Pompeo, un segnale di sostegno, da parte degli Stati Uniti di Trump, all’accidentato processo che dovrebbe rappresentare un primo passo sulla strada del dialogo. Eppure, come i lettori più accorti si ricorderanno, la scorsa primavera proprio gli USA si erano resi protagonisti di un inatteso “cambio di passo” sulla crisi rispetto alla “cabina di regia condivisa” precedentemente promessa al Governo italiano. Il primo segnale fu la mancata firma di una bozza di risoluzione britannica presentata in Consiglio di Sicurezza ONU, che condannava senza appello l’avanzata di Haftar su Tripoli. Il secondo fu l'”amichevole” telefonata intercorsa tra Trump e il generale della Cirenaica nemico di Sarraj, il premier del Governo di Unità Nazionale sostenuto dall’ONU (e dall’Italia). Una posizione “ondivaga” che, di fatto, aggiunge caos al già inestricabile coacervo di interessi contrapposti, economici e geopolitici, delle tante potenze straniere a diverso titolo coinvolte nell’impasse.
Se gli Stati Uniti ci saranno, mancherà invece la Grecia, non invitata dalla Germania a partecipare alla conferenza. E invece, Atene avrebbe voluto avere una voce in capitolo, se non altro per difendere la propria quota di interessi energetici che si stagliano in sottofondo alla crisi. Difficile dimenticare, in effetti, che quelle stesse potenze che in Libia sostengono uno schieramento o l’altro fanno parte di una intricatissima tela che, nel Mediterraneo Orientale, segue le rotte del gas naturale. Ancora una volta, insomma, è l’economia a tirare le fila della geopolitica, e gli interessi stranieri a prevaricare la legittima richiesta dei libici di essere attori del proprio destino. Del resto, l’inviato speciale del Segretario Generale ONU in Libia, Ghassan Salame, lo ha detto più volte e chiaramente: se le potenze non metteranno da parte le proprie ambizioni personali, la crisi non incontrerà mai soluzione. Lo ha ripetuto di recente, parlando con i giornalisti al Palazzo di Vetro: “Quello che ho chiesto al Consiglio di Sicurezza, e quello che chiedo a molti Paesi, è molto chiaro: tenetevi fuori dalla Libia. Ci sono già troppe armi in Libia. Non ne hanno bisogno di altre. Ci sono abbastanza mercenari, quindi smettetela di mandarli, come sta succedendo proprio ora”. Persino il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, in occasione della sua visita in Italia di dicembre, ha lanciato un appello simile: “È particolarmente frustrante per me, e so che la guerra libica è anche al centro dei vostri interessi”, ha detto nel suo discorso a Palazzo Madama, “il fatto che il Consiglio di Sicurezza abbia dichiarato un embargo sulle armi, e abbia chiesto più volte il cessate il fuoco. Eppure, nessuno degli attori sul terreno lo rispetta. Abbiamo diversi Stati che forniscono armi, ogni singola settimana, a entrambe le parti in conflitto”.
Nella bozza di dichiarazione finale di 55 punti, fornita da fonti della Cancelleria federale e pubblicata in anteprima dall’Agenzia Nova, è esplicitato nero su bianco il “forte impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e l’unità nazionale della Libia”, e il sostegno delle parti a “un processo politico guidato dai libici e dei libici”, l’unico in grado di “porre fine al conflitto e portare a una pace duratura”. Non solo: si condannano fermamente fenomeni quali “instabilità, ingerenze straniere, divisioni istituzionali, proliferazione di armi incontrollata ed economia predatoria”, colpevoli di rappresentare “una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, offrendo terreno fertile a trafficanti, gruppi armati e organizzazioni terroristiche”. E al netto della prospettiva, che pare essere sul tavolo, di un “nuovo, rappresentativo” governo unificato “di accordo nazionale”, quanto davvero le potenze coinvolte saranno disposte a tener fede a queste parole?
Difficile essere ottimisti, a giudicare dagli interessi in campo. Qualche settimana fa la Turchia, che sostiene il Governo di Unità Nazionale, ha firmato con la Libia un Memorandum d’Intesa che sancisce l’istituzione di un’area marittima condivisa tra Tripoli e Ankara nel Mar Mediterraneo. All’articolo 4, l’intesa prevede che “nel caso in cui vi siano fonti di ricchezza naturale” nell’area, le due parti “possono concludere accordi allo scopo di sfruttare congiuntamente queste risorse”, vietando a entrambi i contraenti di impegnarsi con uno stato terzo senza aver preventivamente avvertito la controparte. A sostegno di Haftar invece, oltre agli Emirati Arabi Uniti, vi è l’Egitto, che di recente ha concesso a Exxon Mobil una nuova licenza esplorativa che potrebbe danneggiare l’alleanza turco-libica. In effetti, la compagnia petrolifera statunitense, che 10 mesi fa ha scoperto un’ampia riserva di gas naturale al largo di Cipro, ha messo gli occhi sulle acque territoriali egiziane, ma pianifica di iniziare le esplorazioni anche al largo di Israele. Un progetto in funzione anti-turca che andrà a supporto dell’EastMed, gasdotto sottomarino che, partendo dalle coste di Israele, toccherà Cipro, Creta e la penisola greca per poi sbucare in Italia, ad Otranto. Il 2 gennaio scorso, hanno dato il via libera alla nuova infrastruttura il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis (non invitato a Berlino), il presidente cipriota Nikos Anastasiadis e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, con la firma di un accordo intergovernativo.
Al quadro si aggiunga anche la visita a sorpresa dell’8 gennaio scorso di Putin ad Istanbul, per il lancio del gasdotto TurkStream, che trasporterà per 980 km il gas naturale russo fino all’Europa del Sud passando per la Turchia. Il Sultano e lo Zar, che in Libia (e in Siria) sostengono due schieramenti opposti, si sono così “rappacificati” a nome del gasdotto che – perlomeno a detta di Putin – costituisce “un segnale di interazione e cooperazione a beneficio dei nostri popoli e di quelli di tutta Europa, e di tutto il mondo”.
Intanto, la presenza straniera in Libia è sempre più pervasiva. Secondo le ricostruzioni della stampa internazionale, la Russia ha schierato centinaia di mercenari a sostegno delle milizie di Haftar impegnate nell’assedio di Tripoli; gli Emirati Arabi Uniti hanno fornito jet e droni, mentre dall’Egitto è giunto supporto logistico. Dal canto suo, la Turchia di Erdogan ha cominciato a inviare le sue truppe nel Paese: si parla di decine di consiglieri militari e, secondo lo scoop del Guardian, di 2000 combattenti siriani, appartenenti al Syrian National Army e altri gruppi ribelli sostenuti dal Sultano nel Paese Mediorientale.
E l’Italia? Dal punto di vista diplomatico, il nostro Paese è reduce da quella che qualcuno ha descritto come una “figuraccia”, quando l’incontro a Roma di Giuseppe Conte con Sarraj, previsto per lo scorso 9 gennaio, è sfumato perché – pare – il capo del Governo libico non era stato informato per tempo del vertice fissato per qualche ora prima tra il Presidente del Consiglio e il generale Haftar. Il doppio incontro, annunciata dai media all’ultimo minuto, sembrava raccontare un nuovo tentativo dell’Italia di assumere un ruolo diplomatico da protagonista. Ruolo che, ha tenuto a specificare il ministro degli Esteri Luigi di Maio in una lettera a Repubblica, il Belpaese può ancora giocarsi: perché, se il “ritardo” italiano è innegabile pure a detta del Ministro, a suo avviso Roma “ha ancora molto da dire”. Che cosa ha da dire l’Italia sull’EastMed, però, ancora non si è capito: accolto con favore dal governo Renzi e dalle aziende italiane già coinvolte (come Edison) o potenzialmente tali, il progetto ha incontrato le resistenze del Conte I, perché porterebbe un’ulteriore infrastruttura energetica nella regione del già discusso Tap. Non a caso, il premier ha proposto come alternativa di optare per un innesto al Tap, prospettiva che eviterebbe la costruzione di un nuovo gasdotto offshore.
Intanto, le organizzazioni non governative ricordano “le vittime collaterali” della crisi: secondo l’ONU, nel 2019 hanno perso la vita più di 284 civili e più di 140mila persone sono rimaste sfollate. E a inizio 2020, il Palazzo di Vetro ha denunciato un’escalation di bombardamenti che ha colpito scuole, ospedali e infrastrutture civili nei dintorni di Tripoli, compreso il Mitiga International Airport. Un bilancio che, se Berlino dovesse essere teatro dell’ennesimo fallimento più che di un passo nella giusta direzione, è destinato ad aggravarsi ulteriormente nei prossimi 12 mesi. In questo senso, non fa ben sperare la decisione della Compagnia petrolifera nazionale (Noc) libica, riferita da una tv qatariota, di fermare “tutte le esportazioni di greggio da tutti i porti e terminal nella Libia centrale ed orientale” su ordine di due capi militari al comando di Haftar. Inoltre, secondo l’emittente Libya al-Ahrar, la produzione di petrolio verrebbe ridotta di “almeno 700 mila barili al giorno” per un valore di “oltre 47 milioni di dollari” ogni giorno. Una mossa che, ha avvertito l’ONU, potrebbe avere conseguenze devastanti sul popolo libico, oltre ad “effetti terribili per la situazione economica e finanziaria già deteriorata del Paese”.