Il 3 marzo scorso, su questo giornale davamo notizia delle inattese dimissioni di Ghassan Salamé, già inviato speciale del Segretario Generale ONU in Libia, a circa tre settimane da quando il Consiglio di Sicurezza aveva (quasi) unitariamente richiesto il cessate-il-fuoco e a pochi giorni dal nuovo fallimento dei negoziati convocati a Ginevra. Da allora, sotto certi punti di vista, sembra essere trascorso un secolo: la pandemia di Coronavirus diffusasi da un lato all’altro del globo ha definitivamente distratto l’attenzione da una guerra che continua a combattersi a poche miglia dalle coste italiane, e che nessun virus – e fino ad oggi nessun negoziato – sembra in grado di arrestare.
Il Coronavirus in Libia
I dati ufficiali al 23 maggio parlano di 72 casi di Coronavirus e tre morti nel Paese nordafricano, mentre il Center for Disease Control libico riporta poco più di 4000 test effettuati (la Libia ha circa 6,6 milioni di abitanti). Di fronte a questi numeri per ora contenuti, su cui si riflette però la limitata capacità diagnostica e di contact tracing di Tripoli, la guerra appare ancora la minaccia più mortale e pericolosa. Eppure, non c’è dubbio che, con gli ospedali già al collasso a causa dei civili feriti e la mancanza di piani di quarantena e isolamento, il diffondersi della pandemia è uno scenario che non si può sottovalutare. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il picco non è ancora stato raggiunto, e “il rischio di intensificazione del focolaio resta molto alto”.
Stephanie Turco Williams, Rappresentante Speciale ad interim e capo della missione UNSMIL dopo le dimissioni di Salamé, martedì scorso ha fatto presente al Consiglio di Sicurezza ONU le sue preoccupazione anche per la condizione dei migranti e richiedenti asilo, 1400 dei quali sono stati espulsi nell’ultimo anno dalla parte orientale del Paese in flagrante violazione della legge internazionale. Il blocco petrolifero, che è costato alla Libia 4 miliardi di dollari, e i mai interrotti combattimenti hanno fatto il resto.
Un anno dall’inizio dell’offensiva di Haftar
È ormai trascorso un anno da quando il generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica a capo delle milizie dell’Est che si riconoscono sotto il nome di “Esercito Nazionale Libico” (Libyan National Army, LNA), ha lanciato un’offensiva alla conquista della capitale Tripoli contro il Governo riconosciuto dall’ONU presieduto da Fayez al Sarraj. “Non sono Cassandra, ma la violenza nelle periferie di Tripoli è soltanto l’inizio di una lunga e sanguinosa guerra nelle sponde sud del Mediterraneo, che minaccia la sicurezza dei principali vicini della Libia e della più ampia regione mediterranea”, aveva predetto in Consiglio di Sicurezza Salamé un anno fa. Dall’inizio dell’offensiva, 200mila persone sono rimaste sfollate, mentre l’ultimo report del Segretario Generale denuncia ancora una volta il flusso di armi, equipaggiamento militare e mercenari stranieri nel Paese, segno di un embargo praticamente impossibile da far rispettare.
Le contraddizioni della missione europea “Irini” per il controllo dell’embargo
Proprio a questo proposito, a fine marzo l’Unione Europea ha annunciato la nuova missione “Irini” (antica divinità greca della pace) nel Mediterraneo centrale, in sostituzione della missione Sophia, per sovrintendere l’embargo delle armi verso la Libia. Una iniziativa partita il 4 maggio scorso in mezzo a enormi difficoltà: quattro giorni dopo, Malta ha dichiarato la sua uscita dalla missione, per protesta contro “il fallimento europeo” nel collaborare con l’isola per gestire il flusso migratorio. Non solo: la missione è anche stata oggetto di dure critiche da parte del governo di Tripoli. Il ministro dell’Interno libico Fathi Bishaga, infatti, ha sintetizzato la questione in questi termini: “nella sua forma attuale”, ha scritto in un tweet, “Irini ha dei difetti, perché manca dei meccanismi per fermare le spedizioni di armi e mercenari che confluiscono nelle milizie di Haftar via terra e aria, principalmente dagli Emirati Arabi Uniti”. E secondo il premier al Sarraj, che ha indirizzato una missiva sull’argomento al Consiglio di Sicurezza ONU, la missione “non si occupa di controllare lo spazio aereo ed i confini terrestri”, permettendo quindi di fatto l’invio di armi e munizioni al suo rivale. “Confermiamo che la missione non è stata trattata con il Governo di Accordo Nazionale come previsto dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza”, ha fatto notare. Altra critica di al Sarraj, il fatto che l’iniziativa trascuri “il monitoraggio delle frontiere aeree e terrestri orientali della Libia dove, come riportano diversi articoli, viene confermato il flusso di armi ed equipaggiamenti a sostegno di Haftar”.
Non sono le uniche critiche avanzate alla missione. Il quotidiano indipendente EUObserver fa ad esempio notare come praticamente l’unico risultato concreto della Conferenza di Berlino di gennaio – che pure pareva aver compiuto un piccolo passo in avanti riuscendo a riunire le principali parti in conflitto – sia stato il via libera al “riadattamento” della già controversa missione di pattugliamento Sophia. E i mesi di negoziati tra i Paesi europei che ci sono voluti per arrivare al lancio della missione sono stati segnati da polemiche e divisioni, tanto che – suggerisce il quotidiano – la missione sarebbe dovuta essere chiamata più propriamente “Eris”, dea greca della discordia.
E uno dei punti più controversi dell’iniziativa non è soltanto il fatto che controllerà esclusivamente le vie marittime, mentre i principali canali di rifornimento di Haftar si sviluppano via terra e attraverso l’aeroporto di Benghazi. Molti Stati erano infatti preoccupati che la missione potesse essere in futuro “riconvertita” per il salvataggio dei migranti in mare, provocando un “effetto pull, di attrazione” (la cui effettiva esistenza non è mai stata supportata da prove empiriche) per i disperati che attraversano il Mediterraneo. Per questo, si è immaginato un meccanismo di controllo per cui Irini dovrà essere riconfermata ogni quattro mesi all’unanimità, e un singolo Stato membro potrà far sì che l’operazione lasci una particolare zona del mare per otto giorni. E il fatto che i migranti restino uno dei principali nodi insolubili in seno all’UE è dimostrato dal fatto che Malta, ritiratasi dall’operazione, qualche giorno fa ha minacciato di porre il veto sulla nomina di chi guiderà il Comando in mare (Force Commander) della missione, a meno che all’interno dell’Ue non si trovi un accordo sulla ridistribuzione dei migranti stipati su due traghetti a largo della località maltese di Hurds Bank.
La nuova escalation
Intanto, la guerra nel Paese ha subito una nuova escalation. Il 27 aprile, Haftar ha clamorosamente rotto l’Accordo Politico Libico negoziato nel 2015 sotto l’egida delle Nazioni Unite, autoproclamandosi capo della Libia. Tre giorni dopo, dichiarava una tregua unilaterale, rifiutata dal Governo di Tripoli con una lettera al Consiglio di Sicurezza ONU datata il 4 maggio, in cui si dichiarava che le passate violazioni “rendono per noi impossibile fidarci della tregua che Haftar annuncia”. Il timore, cioè, era che l’uomo forte della Cirenaica utilizzasse tale cessate-il-fuoco per radunare i suoi uomini dopo le recenti perdite militari subite. Il 18 maggio, il Governo di Accordo Nazionale di Sarraj riferiva di aver ripreso il controllo sulla base aerea di Al-Watiya, a sud-ovest della capitale e precedentemente usata dalle milizie di Haftar per condurre le proprie operazioni militari.
Una guerra per procura, o molto di più
Parallelamente, si moltiplicano le evidenze che dimostrano il peso delle influenze straniere in una guerra che di “civile” ha sempre meno, e che è sempre più vicina a conflitto per procura. Nella riconquista della base di Al-Watiya, infatti, secondo il New York Times ha avuto un ruolo fondamentale la Turchia, la cui artiglieria ha avuto la meglio sulle batterie di difesa aerea russe. Proprio a questo proposito, esperti ONU starebbero indagando sul sospetto dispiegamento di almeno otto aerei da combattimento, forse provenienti dalla Siria, di fabbricazione russa in Libia a sostegno di Haftar. Se così fosse, questo fotograferebbe un sempre maggiore coinvolgimento di Mosca nel conflitto, circostanza che i diplomatici temono possa portare a uno scontro diretto con Ankara. Dopo la riconquista della base aerea nel sud-ovest del Paese, in effetti, un briefing compilato dallo European Council on Foreign Relations titolava eloquentemente: “It’s Turkey’s Libya now”.
La questione delle influenze straniere in Libia è forse uno dei punti più controversi del conflitto. A inizio maggio, è trapelato alla stampa un rapporto confidenziale del gruppo di esperti che assiste il Comitato ONU per le sanzioni. Secondo i media, il documento afferma che la compagnia militare privata russa Wagner ha dispiegato circa 1.200 mercenari in Libia, a partire dal 2018, a sostegno di Haftar. E mentre il Cremlino nega, il rapporto accusa anche la Turchia di aver reclutato combattenti siriani. Il gruppo di esperti cita peraltro le indagini in corso sul reclutamento di combattenti siriani da parte della stessa Russia in aiuto all’esercito di Haftar.
“Giù le mani dalla Libia”, aveva tuonato in proposito l’ex inviato speciale Salamé, che ha evidenziato nel corso di tutto il suo mandato la portata degli interessi stranieri nel Paese. Ripetute, anche, le denunce dello stesso segretario generale Guterres in proposito. Sulla stessa linea si è dimostrata più di recente la Rappresentante Speciale ad interim, Stephanie Williams, che il 24 aprile ha dichiarato: “La situazione ora come ora è una tempesta perfetta, un conflitto in costante intensificazione che, in realtà, viene direttamente alimentato da parti esterne. È davvero molto più di una crescente guerra per procura”. Eppure, nulla, fino ad oggi, è riuscito a fare l’ONU, se non mostrare riflessi quegli interessi contrapposti nelle granitiche divisioni in seno al suo stesso Consiglio di Sicurezza.