“Una situazione estremamente problematica sotto tutti i punti di vista”. Così Nazzarena Zorzella, avvocata dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), definisce la condizione dei “grandi dimenticati” dell’emergenza coronavirus in Italia: migranti, richiedenti asilo, persone di origine straniera presenti sul nostro territorio, il più delle volte esclusi dalle cronache di queste ore. Per accendere un riflettore sulla questione, Asgi, insieme ad altre realtà del mondo no profit e del volontariato, ha compilato e firmato un documento che prova a fare il punto sullo stato dei diritti dei cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, tentando una vera e propria “ricognizione” dello status quo tra CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo), CAS (centri di accoglienza straordinaria), CPR (centri di permanenza per il rimpatrio) e insediamenti informali urbani e rurali. Perché al di là della retorica della “livella”, “se è indubbiamente vero che il virus, nel suo diffondersi, non fa distinzioni, è altrettanto vero che la precarietà giuridica, alloggiativa, lavorativa e finanche esistenziale alla quale sono esposti molte/i cittadine/i straniere/i determina rischi specifici e differenti, di cui è urgente discutere anche in un’ottica di salute pubblica”.
“Sia i CAS che i CPR sono situazioni che oggettivamente non consentono il rispetto delle misure legali per il contenimento del contagio”, spiega l’avvocata Zorzella, che La Voce di New York ha raggiunto telefonicamente. Si tratta infatti di strutture di dimensioni prevalentemente medio-grandi, che ospitano decine, se non centinaia di persone, “con camere dove ne vivono quattro, nove, anche dodici insieme”. “Ci risulta inoltre che, come del resto pare succeda in tutto il Paese, manchino i dispositivi di protezione individuale come le mascherine e guanti, e la sanificazione degli ambienti non venga effettuata continuativamente”. Situazioni, insomma, che, rendendo impossibile l’applicazione delle disposizioni, mettono a rischio la salute pubblica, quella di chi vive nelle strutture e quella degli operatori dell’accoglienza.
A questa condizione ad alto rischio sembra aver indirettamente contribuito il decreto sicurezza del 2018, che, tra le altre cose, ha favorito l’accoglienza in centri di grandi dimensioni a discapito di un sistema virtuoso diffuso sul territorio. Sistema che Asgi e le altre associazioni impegnate nella battaglia chiedono di ripristinare per rispondere all’emergenza: “Lo slogan ‘rimaniamo in casa’ vale solo per chi una casa ce l’ha e ha determinate caratteristiche”, spiega Zorzella. “Chiediamo che si ritorni a un sistema d’accoglienza diffusa, e, nelle more del trasferimento, di consentire l’attivazione delle misure previste per tutti i luoghi pubblici”: che vengano cioè “attuati tutti i meccanismi di salvaguardia delle persone accolte e dei lavoratori dell’accoglienza”.
Un discorso a parte meritano in particolare i CPR, centri preposti alla permanenza delle persone in attesa di rimpatrio. Gli uffici immigrazione, infatti, sono stati chiusi, fatta eccezione per le attività legate alle richieste di protezione internazionale e ai provvedimenti di espulsione. Eppure, osserva l’avvocata Asgi, “i rimpatri sono tecnicamente ineseguibili adesso. Il destinatario di un provvedimento di espulsione non può essere rimpatriato perché la maggior parte dei confini sono chiusi, e perché ciò comporterebbe un rischio di esportazione del contagio. Non si comprende dunque perché i CPR continuino a contenere uomini e donne in situazione di evidente promiscuità e nella chiara impossibilità di rispettare le misure di contenimento”.
Quanto ai permessi di soggiorno, il decreto legge di marzo aveva sospeso il termine per le richieste e i rinnovi, mentre il successivo ne ha prorogato la validità fino al 15 giugno. Eppure, molti cittadini di origine straniera si trovano in difficoltà. “Diversi datori di lavoro”, spiega infatti la referente di Asgi, “non sono necessariamente a conoscenza di questa proroga di legge, quindi il rischio è che venga interrotto il rapporto professionale e si generi un circolo vizioso: senza lavoro, il permesso non viene rinnovato”. A suo avviso, dunque, è mancata innanzitutto una corretta “veicolazione di queste notizie”. Criticità anche in materia di richieste d’asilo: nonostante le procedure non siano state formalmente bloccate, “stiamo constatando moltissime difficoltà. Tra le questure, c’è chi fa solo il fotosegnalamento e rimanda di 2-3 mesi la formalizzazione. E solo a partire da quest’ultima, scatta il periodo dopo il quale il richiedente asilo può svolgere un’attività lavorativa e quindi provvedere al proprio mantenimento”. Per questo, Asgi si sta muovendo per “chiedere che venga ripristinato un canale ordinario quantomeno per queste situazioni oggettivamente urgenti e delicate”.
Altro capitolo estremamente problematico, quello relativo alle persone che vivono in insediamenti informali, rurali o urbani: si tratta di veri e propri “ghetti” in pessime condizioni igienico-sanitarie, che spesso non dispongono nemmeno di acqua, e dove le abitazioni corrispondono, nel migliore dei casi, a baracche o tende; “situazioni”, insomma, “in cui non può venire messo in atto alcun meccanismo di protezione personale”. Proprio a questo proposito, Asgi ha diramato giorni fa una lettera ai Presidenti delle Regioni e agli assessori regionali alla Salute, all’Agricoltura e alle Politiche Sociali, per chiedere che “le persone attualmente presenti negli insediamenti” possano essere “rapidamente trasferite presso idonee strutture di accoglienza, di piccole dimensioni o comunque atte a garantire il rispetto delle misure igienico-sanitarie previste dai decreti in materia di emergenza COVID-19”. Si richiede poi che, nelle more di tali trasferimenti, le Regioni predispongano urgentemente, tra le altre cose, “un approvvigionamento idrico di emergenza”, “la distribuzione di kit igienici”, “la disponibilità di servizi igienici e la raccolta periodica dei rifiuti”. Dei braccianti agricoli – per i quali, con l’inizio dell’emergenza, nulla sembra essere cambiato – si è occupato peraltro l’appello lanciato dalla Flai-Cgil in collaborazione con Terra!Onlus e rilanciato da diverse realtà. Tra le richieste, indirizzate al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nonché ai Ministri dell’Agricoltura, del Lavoro, dell’Interno, della Salute e del Sud, c’è anche quella che i Prefetti, alla luce degli ulteriori poteri loro conferiti dal DPCM del 9 marzo, “possano assumere autonomamente iniziative o adottare disposizioni volte alla messa in sicurezza dei migranti e richiedenti asilo presenti sul territorio, mediante l’allestimento e/o la requisizione di immobili a fini di sistemazione alloggiativa”. Non solo: il documento ricorda come i lavoratori extracomunitari in condizione di irregolarità possano “tamponare” la carenza di lavoratori agricoli causata, in alcune aree del Paese, dall’interruzione dei flussi di manodopera dai Paesi dell’Est Europa: per via dell’emergenza, infatti, sono molti i lavoratori agricoli provenienti da Romania e Bulgaria ad essere rientrati, mentre il flusso proveniente dalla Polonia si è praticamente azzerato. “Diventa quindi fondamentale”, si legge, “una regolarizzazione per far emergere chi è costretto a vivere e lavorare in condizioni di irregolarità”, provvedimento da unire a misure di contrasto al lavoro nero.
Ma nell’esercito di “dimenticati” ci sono anche le badanti, che, spesso senza permesso, lavorano nelle abitazioni o nelle strutture sanitarie per accudire i nostri anziani. E se le cronache riferiscono di molti casi di contagi e morti nelle Rsa e nelle case private, “di loro”, sottolinea Zorzella, “nessuno sa nulla: parliamo di migliaia di persone. Molte, se si trovano in condizione di irregolarità, potrebbero avere paura o difficoltà a chiedere aiuto in caso di sintomi”. Un discorso simile vale per le tante categorie di stranieri presenti sul nostro territorio: “impressionante”, denuncia l’avvocata Asgi, “che non emergano dati o statistiche su di loro”. “Perché nessuno ne parla o fa una indagine in proposito?”, si chiede. A maggior ragione, viste le “barriere” esistenti per i cittadini stranieri nell’accesso al sistema sanitario: “Una persona che si rivolga a strutture sanitarie pubbliche, se non ha il permesso di soggiorno, ha paura di essere poi raggiunta da provvedimenti come l’espulsione. Resta una spada di Damocle che grava sulla testa delle persone prive di permesso, che quindi, davanti a un rischio del genere, preferiscono non chiedere aiuto. Un problema aggravato dal fatto che molti dei centri sanitari preposti, gestiti dal volontariato sociale, sono comprensibilmente chiusi per l’emergenza”.