Nel luglio 2019, l’inviato speciale ONU in Libia Ghassan Salame aveva tracciato una roadmap per il Paese nordafricano articolata in tre tappe: una tregua, una conferenza di alto livello con partecipanti tutti i “Paesi interessati”, e “un meeting libico di personalità influenti da tutto il Paese”. I mesi successivi avrebbero drammaticamente palesato tutte le difficoltà ad attenersi a quel piano. Una delle ragioni l’ha sottolineata Salame il 6 gennaio scorso, quando, appena fuori dalla sala dove si riunisce il Consiglio di Sicurezza, aveva invitato le parti a “tenere giù le mani dalla Libia”. Con quelle parole, l’inviato speciale ONU denunciava ancora una volta quanto i “Paesi interessati”, nel tentativo di realizzare le proprie agende economiche e strategiche, abbiano finito per trasformare il conflitto libico in una guerra per procura: “Il Paese sta soffrendo troppo per le interferenze straniere”, aveva detto in quella occasione. Un’altra ragione è stata messa a fuoco da Salame qualche settimana più tardi, il 30 gennaio, quando, davanti al Consiglio di Sicurezza, ha sottolineato che “la tregua regge solo a parole”.
In questo quadro, il fatto che mercoledì il Consiglio ONU abbia approvato una risoluzione che chiede alle parti di impegnarsi “per un cessate il fuoco duraturo” sembra costituire un passo nella giusta direzione: gli Stati membri – al netto dell’astensione della Russia – sembrano infatti essere stati in grado di mostrare una qualche unità, pur essendo notoriamente divisi tra i due schieramenti in campo. Allo stesso tempo, la risoluzione dimostra anche quanto fragile sia l’equilibrio raggiunto alla Conferenza di Berlino a gennaio. Lo testimoniano, peraltro, i colpi di mortaio che nelle scorse ore hanno colpito l’area a sud di Tripoli: i combattimenti, insomma, non si sono mai interrotti davvero. E intanto l’ONU denuncia come le mai terminate ostilità in Libia abbiano seminato sul terreno di molte città ordigni inesplosi, oltre a circa 20 milioni di pezzi di artiglieria. Secondo Salame, la Libia ha il più alto numero al mondo di scorte di munizioni non controllate, tra le 150mila e le 200mila tonnellate.
La risoluzione conferma anche l’impegno a rispettare i 55 punti sanciti dalla Conferenza di Berlino, che rappresenta il “secondo passo” della roadmap di Salame. Un progresso verso il terzo è stato tentato con i negoziati dei giorni scorsi a Ginevra, che hanno ospitato la prima di tre “Libyan 5+5 Joint Military Commission”, composta da 5 esponenti militari delle due parti in conflitto. I colloqui, iniziati il 3 febbraio scorso, non hanno però portato a un pieno accordo tra le parti, “nonostante”, fa sapere l’ONU, sia stato raggiunto “un consenso in diverse aree”: proseguiranno dunque il 18 febbraio prossimo.
Ma al di là dei tavoli dove si giocano i negoziati, resta clamorosamente aperta la mai risolta questione dei diritti umani. Un punto che interpella, prima di molti altri, il Governo italiano, a seguito del Memorandum tra Roma e Tripoli firmato nel febbraio 2017 che di fatto “appaltò” il controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo alla Guardia Costiera libica. Il 3 febbraio scorso, il Memorandum si è rinnovato “automaticamente” tra le polemiche. Non è un mistero, infatti, che il patto responsabile – insieme al controverso accordo stretto con le milizie rivelato da varie inchieste giornalistiche – di aver fatto drammaticamente crollare gli sbarchi sulle coste italiane chiuda gli occhi sulle torture e le condizioni disumane sofferte dai migranti nei centri di detenzione nel Paese. Lo disse persino l’ONU: l’allora Alto Commissario per i Diritti Umani Zeid Al Hussein definì il memorandum “inumano”. Così, qualche giorno dopo la sua proroga, il Governo italiano ha fatto sapere di volervi apportare alcune modifiche.

A destroyed tank becomes a piece of playground equipment for children in Benghazi, Libya. (March 2011)
La bozza è stata inviata a Tripoli il 9 febbraio scorso, ed è stata ottenuta in esclusiva da “Avvenire”. Nessuna modifica sostanziale, in sintesi, viene apportata dal Governo, che chiede alla controparte soltanto qualche assicurazione in più in termini di rispetto dei diritti umani. Ad esempio, si chiede che la Libia garantisca “maggiori tutele per migranti e richiedenti asilo e per le persone vulnerabili” e gestisca il fenomeno migratorio nel rispetto dei “principi della Convenzione di Ginevra e delle norme di diritto internazionale sui diritti umani”. L’Italia domanda, inoltre, “ulteriori attività di formazione del personale libico, in particolare nelle operazioni in mare, per garantire che si svolgano secondo gli standard internazionali e nel rispetto dei diritti umani”: così facendo, riconferma di fatto la legittimità della Guardia Costiera libica, di cui numerose inchieste giornalistiche hanno svelato gli intrecci con i trafficanti di uomini. L’Italia, poi, si impegna a elaborare, “attraverso l’assistenza tecnica e il sostegno delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, una normativa nazionale settoriale che garantisca il rispetto dei diritti di migranti e rifugiati”: eppure, come osserva “Avvenire”, nessuno di questi propositi ha mai trovato compimento negli anni precedenti, quando la situazione nel Paese “appariva relativamente meno conflittuale”. In più, nel documento si parla ripetutamente di “centri d’accoglienza”, e mai di “detenzione” o di “centri di prigionia”: per usare le parole di “Avvenire”, “già nel lessico si capisce come Roma non intenda chiamare le cose con il loro nome”. Come se non bastasse, sottolinea il quotidiano, nessuna delle agenzie ONU sul campo sarebbe stata interpellata o avvertita dall’Italia.
Agenzie che, peraltro, si trovano a operare sul territorio in mezzo ad estreme difficoltà. Lo scorso 30 gennaio, l’UNHCR ha annunciato che “sospenderà le sue operazioni presso la Struttura di raccolta e partenza (Gathering and Departure Facility / GDF)” di Tripoli, “a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, del suo staff e dei suoi partner, in considerazione anche dell’aggravarsi del conflitto”. Poche ore più tardi, il fattoquotidiano.it parlava in esclusiva di una missiva, contente una disperata richiesta d’aiuto, consegnata da un gruppo di migranti assistiti dall’agenzia Onu ai suoi rappresentanti in Libia. Quindi, in una lettera a Repubblica, il 6 febbraio scorso il capo dell’UNHCR Filippo Grandi specificava che la sua agenzia “resta in Libia”: “Andarcene ora costituirebbe un’inadempienza ai nostri doveri”. Ma è chiaro che l’estrema instabilità sul campo mina l’indispensabile ruolo delle agenzie e delle ONG nell’assistere migranti e popolazione locale. Intanto, sempre più persone necessitano di assistenza umanitaria: più di un milione, secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA).