Eppure si tratta di un fenomeno sociale in crescita e le conseguenze geopolitiche sono enormi. Secondo i dati forniti dalle NU (in particolare da IOM e UNHCR) il numero dei migranti continua a crescere sia in termini assoluti che come percentuale della popolazione mondiale. E solo una minima parte di loro sono “rifugiati”: degli oltre 260 milioni di persone che hanno lasciato il proprio paese, nel 2018, “solo” 20,4 milioni erano rifugiati (ai quali si aggiungono 5.5 milioni di palestinesi). Ancora meno i richiedenti asilo: secondo l’UNCHR, nel 2018, non sono stati più di 3,5 milioni. Anche la loro distribuzione globale è molto differente. Mentre rifugiati e profughi spesso trovano accoglienza in paesi poco lontani da quelli da cui sono stati costretti a fuggire (paesi come Turchia, Pakistan, Uganda e Sudan), i “semplici” migranti cercano di raggiungere paesi come gli USA (che ospita quasi 50 milioni di migranti) o, in Europa, la Germania, la Francia e Regno Unito (ciascuno dei quali ospita da 8 a 12 milioni di migranti). Anche l’Italia fa la sua parte ma il numero di migranti ospitati è considerevolmente minore: non arriva a sei milioni di persone.
Numeri di fronte ai quali le controversie per le poche decine di migranti che arrivano sulle imbarcazioni delle ONG appaiono quasi ridicole. Il vero problema, visto che si tratta di un fenomeno che presenta trend crescenti in tutto il mondo, è un altro: l’Unione Europea è capace di gestire i fenomeni migratori in atto? A vedere cosa sta avvenendo sembrerebbe proprio di no.
Per averne la prova basta dare un’occhiata al tanto citato, ma poco conosciuto fino in fondo, Regolamento di Dublino (oggetto di polemiche per l’assenza dell’allora ministro Salvini che, durante la passata legislatura, preferiva delegare piuttosto che essere presente agli incontri con i suoi colleghi europei che discutevano di migranti).
Il primo accordo risale a quasi un trentennio fa (possibile che sia necessario così tanto tempo per definire delle linee guida condivise da tutti i paesi dell’UE?): nel 1990, i rappresentanti di quella che allora si chiamava Comunità Europea, riuniti a Dublino, firmarono un accordo per armonizzare le norme e individuare dei criteri condivisi sulla gestione delle domande di asilo. Solo tre anni dopo, nel 2003, questa convenzione venne trasformata in regolamento europeo “vincolante”: era nato Dublino II.
Per definire del tutto il nuovo regolamento non furono sufficienti altri dieci anni. Con l’aumentare dei flussi migratori, e delle polemiche che ne derivavano, nel 2013, si giunse al Regolamento di Dublino III che, pur introducendo delle modifiche, non prevedeva il cambiamento più atteso, ovvero applicare gli accordi non solo ai rifugiati e ai richiedenti asilo ma a tutti migranti. Un aspetto tutt’altro che secondario visto che le differenze tra questi tre gruppi sono notevolissimi. Anni e anni di incontri e discussioni che non erano bastati a risolvere la questione principale: chi doveva farsi carico dei migranti (e non solo dei richiedenti asilo)?
Da allora gli incontri per apportare modifiche e decidere eventuali cambiamenti del regolamento non si sono più arrestati. Nel 2016, venne avanzata una nuova “proposta” che prevedeva un meccanismo automatico di ripartizione di richiedenti asilo (di nuovo, non dei migranti!) tra i paesi membri in base a una “condivisione equa” che tenesse conto del PIL e della popolazione di ogni singolo paese. E poi altri incontri, con cadenza quasi mensile, tra i rappresentanti dei governi per valutare clausole e procedure. Come quella che prevede, nel caso in cui i richiedenti asilo dovessero vedere respinta la propria istanza, di rispedirli nel paese di “prima accoglienza”. Ovvero soprattutto in Italia o in Grecia o in Spagna. Un aspetto tutt’altro che irrilevante e che meriterebbe l’attenzione di tutti ma delle quali si è parlato poco: eppure, in base a questa norma, solo nel 2018, i rimpatri verso l’Italia dalla Germania sono stati 2.848 , ai quali si aggiungono i 1.500 dalla Francia, i 1.103 dall’Austria e i 728 dalla Svizzera (solo per citare alcuni paesi..). Da gennaio 2019 a fine aprile i “Dublinanti” (come sono statit definiti) rispediti in Italia solo dalla Germania sono stati ben 710. Tutto nel pieno rispetto delle regole previste da Dublino III. Ma anche questa regola, recentemente, è stata messa in discussione: nel 2018, la proposta presentata da Elly Schlein, prevedeva un ricollocamento automatico degli immigrati “per quote” nei vari paesi europei.
L’ennesima prova, se mai ce ne fosse bisogno, che molto spesso le polemiche incentrate sui migranti che giungono sulle imbarcazioni delle ONG non servono a risolvere il problema. Ma soprattutto che, in realtà, l’UE non è un’unione “politica” ma un’accozzaglia di regole per favorire pochi grandi gruppi lasciando ai singoli governi il compito di di risolvere (se ne sono capaci) questi problemi.
Mentre i giornali riempiono le prime pagine delle polemiche intorno alle navi delle ONG bloccate al limite delle acque internazionali (ultimo caso quello della Ocean Viking) pochissimi parlano della stragrande maggioranza dei migranti che arrivano in Italia quotidianamente e senza clamori mediatici. Dalla Tunisia e dalla Libia (ma allora a cosa sono serviti gli accordi, le missioni e gli incontri di tutti i governi da decenni a questa parte? e a cosa è servito acquistare satelliti per la sorveglianza del mare?), ogni giorno, arrivano sulle coste italiane imbarcazioni cariche di migranti. Flussi inarrestabili che emergono (in parte) dai dati del rappporto generale del Ministero che parla, da gennaio ai primi di settembre 2019, di 5.853 migranti sbarcati, per la maggior parte tunisini (e poi pakistani, ivoriani, algerini, iraqeni…). A volte arrivano su pescherecci, altre volte su piccole imbarcazioni che i satelliti, le motovedette e nemmeno gli aerei di Frontex sembrano non essere capaci di individuare (ma allora a cosa sono serviti i miliardi spesi?). E una volta in Italia, per loro e per le autorità nazionali, inizia un percorso lungo e difficile a causa delle scarse risorse umane a disposizione, di norme mai attuate del tutto e di infrastrutture insufficienti (ma anche di questo si parla raramente).
E nessuno sembra essere interessato ai numeri reali del fenomeno migratorio verso l’Europa (e non solo attraverso il Mar Mediterraneo): gli ultimi dati parlano di milioni di persone che sono entrate in un’Europa che fa finta di non vederle (dati OECD, OAS). Altro che gli 82 migranti della Ocean Viking!
Nessuno poi dice che, in barba alle promesse e agli accordi con i paesi dell’UE, la stragrande maggioranza di quelli arrivati in Italia è destinata a rimanerci. O a tornarci. Secondo i dati dell’ISPI, nell’ultimo anno, Italia e Malta sarebbero riuscite a ricollocare in altri paesi europei solo poco più del 5 per cento dei migranti arrivati via mare. Dei 13.580 migranti giunti in Italia da giugno 2018 a luglio 2019, solo 840 sarebbero stati ricollocati (ma il dato contiene anche i ricollocamenti da Malta) e altri 900 circa sarebbero casi di “negoziazione”. Tutti gli altri rimangono nel paese dove sono sbarcati!
Quando si parla di migranti che attraversano il Mar Mediterraneo, si dovrebbe parlare dei numeri veri, ma anche delle cause che spingono così tante parole a lasciare il proprio paese, la propria casa, la propria famiglia, di fenomeni come il langrabbing, di secoli di sfruttamento del continente africano, di regimi favoriti da chi preferisce avere a che fare con un signolo dittatore (anche se sanguinario, antidemocratico e feroce), piuttosto che con un parlamento eletto democraticamente, di sottosviluppo e di di un giro d’affare miliardario per le multinazionali e di speculazione di quei pochi che hanno trovato la gallina dalle uova d’oro nei “viaggi della speranza”, come sono stati chiamati.
Ma anche della dimostrazione, l’ennesima, se mai ce ne fosse bisogno, che quella europea non è un’Unione, una condivisione di principi e regole fondamentali prima di tutto umane, sociali e politiche, ma un’accozzaglia di regolamenti imposti a forza di sanzioni e multe (a proposito, pochi dicono che il Regolamento di Dublino prevederebbe una multa di 250mila euro per ogni rifugiato respinto dal paese in cui si trova, ma se si rimanda indietro un migrante…) che servono solo a favorire gli scambi commerciali per un numero ristretto di grandi imprese, le stesse che spesso strappano materie prime dalle mani dei legittimi proprietari nel continente africano e che sfruttano la manodopera a basso costo grazie all’assenza di regole che tutelino ambiente e lavoratori.
Tutto il resto, era e continua ad essere un problema dei singoli paesi, lasciati soli a gestire le frontiere meridionali del continente europeo. Dove, in barba alla cosiddetta “Unione” e agli innumerevoli incontri, ciascuno fa come gli pare: la Spagna con le sue barriere coperte di filo spinato nell’avamposto di Gibilterra, Malta chiudendo i porti (e non sottoscrivendo alcuni accordi marittimi internazionali), la Grecia stipando gli arrivi nelle isole in modo a volte disumano (come denunciato più volte dall’Unicef).
E l’Italia, che ha fatto di quello che è prima di tutto un problema sociale, geopolitico e umano, una diatriba politica, una polemica da baraccone per avere un po’ di spazio sulle prime pagine dei giornali.