Di problemi ambientali si parla da decenni. Non fanno più notizia il grido di allarme lanciato dell’adolescente ambientalista di turno (negli ultimi decenni, se ne sono viste diverse) o l’appello dell’attore improvvisamente diventato paladino della sostenibilità (anche di questi, se ne sono visti molti) o le promesse di politici improvvisamente animati da un impeto per la natura (quasi sempre in prossimità di tornate elettorali).
Ma se a parlarne è chi supervisiona e ha voce in capitolo sulle politiche delle Nazioni Unite in materia di ambiente e problemi sociali, allora cambia tutto. Specie considerando che la persona in oggetto è un “tecnico” e non usa termini diplomatici e parole dolci quando parla di “apartheid climatico” su tutto il pianeta, con i ricchi che non corrono il rischio di morire di fame e “il resto del mondo lasciato a soffrire”. A lanciare questo grido d’allarme è Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà, nel suo rapporto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu.
Secondo Alston, le misure adottate per far fronte al problema sono “palesemente inadeguate” e non saranno in grado di salvare la Terra dal “disastro imminente”. Anche “l’irrealistico scenario migliore di 1,5 ° C di riscaldamento entro il 2100, vedrà temperature estreme in molte regioni e lascerà alle popolazioni svantaggiate insicurezza alimentare, perdita di reddito e peggioramento della salute”.
Parole durissime confermate da dati scientifici che, giorno dopo giorno, ribadiscono che il riscaldamento globale (negato da alcuni “esperti” come quelli scelti dal presidente degli USA, Donald Trump) è ben al di sopra di quello che volevano far credere alcuni. Nei giorni scorsi, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) ha confermato di aver registrato, nel 2016 e nel 2017, temperature “estreme” in Kuwait e Pakistan. Fino a che punto “estreme”? Basti pensare che sono talmente alte da aver sfiorato il valore più elevato mai registrato da un termometro sulla superficie della Terra.
Cambiamenti climatici che hanno effetti pesanti sulla popolazione: lo scorso anno, Città del Capo, in Sud Africa dovette far fronte ad una siccità e ad una carenza di risorse idriche che mise a serio rischio la sopravvivenza di migliaia di persone (l’acqua vene razionata ai limiti previsti dalle NU per la sopravvivenza: 50 litri al giorno a persona). Ora è la volta dell’India: a Chennai, la sesta città più popolosa dell’India e capitale dello stato meridionale di Tamil Nadu, i bacini idrici che riforniscono la città risultano praticamente asciutti e milioni di persone cercano di sopravvivere con la poca acqua portata dalle autobotti. In altre zone del pianeta (come in California) la gente ormai cerca di sopravvivere a periodi di siccità sempre più frequenti. Dove non è possibile, abbandona la propria casa per cercare un posto dove poter vivere. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, anche di chi finge di non capire le cause di alcuni cambiamenti geopolitici in atto a livello globale: ”Molti dovranno scegliere tra fame e migrazione” ha detto Alston.
Ma non basta. Gli eventi in atto causeranno effetti a catena e un peggioramento sempre più rapido. A cominciare dal maggior consumo di energia per far fronte al caldo sempre più opprimente e per estrarre o trattare l’acqua. Secondo alcuni ricercatori la quantità di energia in più di cui avrà bisogno la gente dovrebbe oscillare tra il 25 e il 58 per cento. Un aumento notevole dei consumi energetici che avrà inevitabilmente ripercussioni sull’ambiente accelerando il peggioramento già in atto.
Tutto questo, non in aree desertiche o particolarmente sensibili del pianeta. Ma dovunque. In questi giorni, un’ondata di caldo “senza precedenti per un mese di giugno” sta colpendo l’Europa, in particolare la Spagna, la Francia, la Svizzera e …..l’Italia: sono state registrate temperature oltre i 40°, eccezionali sia per intensità che per “precocità”.
Cambiamenti inusuali e preoccupanti che alcuni, però, sembrano non vedere. Il 20 giugno, a Bruxelles, i membri dell’UE non sono riusciti a sottoscrivere un accordo che prevedeva l’impegno a “emissioni nette zero” per i 28 stati membri entro il 2050 (con una forte diminuzione entro il 2030): a non consentire il raggiungimento dell’accordo sarebbero state le posizioni assunte da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Estonia. “L’Europa, terza al mondo dopo Cina e Stati Uniti in termini di emissioni di CO2, rischia ora di arrivare senza un impegno comune al summit sul clima organizzato per il 23 settembre dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres” ha scritto Le Monde.
E in Italia? Nel Bel Paese, quella che, durante gli incontri di Parigi era previsto come un tetto massimo, un limite da non superare tra qualche anno (+1,5° C di aumento delle temperature medie entro il 2100), è stato ampiamente oltrepassato lo scorso anno: già nel 2018, la temperatura media annuale ha segnato un aumento record di +1.71° centigradi rispetto al valore di riferimento del periodo 1961-1990. A confermarlo il rapporto dell’ISPRA i cui risultati sono stati appena diffusi.
Tutti segnali chiari e ampiamente previsti dagli scienziati di tutto il mondo, ma dei quali i governi dei paesi più industrializzati (Europa e USA in primis) non hanno voluto tenere conto. Eppure, a causare le emissioni e i cambiamenti climatici in atto, quasi sempre, son proprio i paesi più sviluppati (o quelli che aspirano ad esserlo nel breve periodo).