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Lavoro minorile, un fenomeno che non fa notizia ma tocca 152 milioni di bambini

Nella Giornata mondiale contro la schiavitù minorile, ricordiamo che il fenomeno tocca soprattutto ma non solo i Paesi poveri: in Italia 300mila casi

C.Alessandro MauceribyC.Alessandro Mauceri
Lavoro minorile, un fenomeno che non fa notizia ma tocca 152 milioni di bambini

UNICEF/James Oatway

Time: 5 mins read

Tutti i telegiornali sono ormai stracolmi  di servizi e articoli sull’incendio nella Cattedrale di Notre Dame, a Parigi. Tanto da non lasciare spazio quasi a nient’altro. Nessuno pare aver ricordato che il 16 aprile, in tutto il mondo, si celebra la Giornata Mondiale contro la Schiavitù Minorile. Venne istituita nel 1995 dopo la morte di Iqbal Masih un bambino pakistano di dodici anni, operaio tessile, attivista e simbolo della lotta contro il lavoro minorile (di bambini che lottano per i diritti fondamentali non ci sono solo quelli impegnati per l’ambiente). Iqbal iniziò a lavorare a sei anni per contribuire ai bisogni della famiglia: incatenato ad un telaio, lavorava per 12 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. Fuggito a questa forma di moderna schiavitù, Iqbal Masih cominciò a viaggiare e a partecipare a conferenze internazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti negati dei bambini lavoratori pakistani e di tutto il pianeta. Nel dicembre del 1994 presso la Northeastern University di Boston gli fu conferito il premio Reebok Human Rights Award (vista la giovanissima età venne creata una categoria apposita: Youth in Action). Morì in circostanze rimaste ancora oggi poco chiare e contraddittorie, il 16 aprile 1995, il giorno di Pasqua. Unica certezza il fatto che a soli 12 anni era diventato una scomoda voce di denuncia delle grosse industrie tessili del Pakistan e di tutti quelli che basano i propri profitti sullo sfruttamento del lavoro minorile. Ma la sua storia ha lasciato un segno in molti: è stato citato nel discorso di accettazione del premio Nobel per la pace di Kailash Satyarthi.

Come per l’ambiente, gli appelli cadono spesso rapidamente nel dimenticatoio mediatico, così, anche nel caso di Iqbal, il suo sacrificio sembra essere servito a poco: ancora oggi, nel mondo, sono almeno “150 milioni i bambini intrappolati in impieghi che mettono a rischio la loro salute mentale e fisica e li condannano ad una vita senza svago né istruzione” come dice l’UNICEF. 

E se, da un lato, è vero che “Il fenomeno del lavoro minorile è concentrato soprattutto nelle aree più povere del pianeta, in quanto sottoprodotto della povertà, che contribuisce anche a riprodurre. Tuttavia, non mancano casi di bambini lavoratori anche nelle aree marginali del Nord del mondo”. 

Anche in Italia. Di loro si è parlato durante un convegno, tenutosi poche settimane fa, dove gli esperti hanno confermato che “sono 152 milioni – e circa 300 mila in Italia – i bambini che, anziché giocare e andare a scuola, sono vittime dello sfruttamento e del lavoro minorile. Sono circa 25 milioni – e 140 mila in Italia – i lavoratori privati della loro libertà e sfruttati in forme moderne di schiavitù”.

L’UNICEF cerca di fare un distinguo tra child labour – sfruttamento economico in condizioni nocive per il benessere psico-fisico del bambino – e children’s work, una forma di attività economica più leggera e tale da non pregiudicare l’istruzione e la salute del minore. Entrambi, però, esistono e la loro eliminazione rientavano tra gli obiettivi dell’Agenda da raggiungere entro il 2030. Ma i numeri confermano che si tratta di una mera chimera. Tutto inutile: povertà, disuguaglianza sociale e interessi smodati continuano a impediere che si possa rimarginare una piaga simbolo (con molte altre) dei nostri giorni. Spesso, in molte zone rurali e impoverite del mondo così come in zone meno povere, i bambini diventano anelli della catena di produzione di prodotti a bassissimo costo, venduti poi in tutto il mondo nella più totale indifferenza da parte dei compratori nei paesi “sviluppati”. L’impiego di manodopera minorile si registra in modo massiccio nella produzione alimentare, nel tessile ma anche nell’estrazione mineraria e nell’assemblaggio non organizzato. Lavori che spesso avvengono in ambienti poco sicuri dove i rischi per la salute (o la stessa sopravvivvenza) dei minori è enorme.

E per quelli che sopravvivono il futuro non è certo roseo: senza alcuna formazione, neanche di base, il loro futuro è fatto di povertà, analfabetismo e privazioni. In Thailandia, dove il 32% dell’intera forza lavoro è costituito da minori. Nelle Filippine, dove i minori che lavorano sono 2.200.000. O in India dove sono tra 55 e 60 milioni. O in Nepal, dove il 60% dei bambini svolge lavori che impediscono il loro sviluppo. E poi in Bangladesh (15 milioni), in Nigeria (12 milioni di minori) e in Pakistan dove sono 8 milioni i bambini ridotti in schiavitù per debiti. O in  Perù dove il 20% dei lavoratori nelle miniere ha fra 11 e 18 anni. E in Egitto dove lavorano 4 milioni di bambini (non soprende che il secondo paese di provenienza dei Minori stranieri non accompagnati giunti in Italia sia proprio l’Egitto). O il Brasile dove sono almento 7 milioni i bambini costretti a lavorare). In occidente, come in molte metropoli asiatiche o africane, si sta diffondendo sempre più anche il lavoro di strada: bambini che cercano di sopravvivere raccogliendo rifiuti da riciclare o vendendo cibo e bevande.

Come in molti altri casi, anche per lo sfruttamento minorile le promesse e gli accordi sottoscritti a livello internazionale non sembrano essere serviti a molto: nel 1999,  l’ILO introdusse la Convenzione relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile (C182 – Convenzione sulle forme peggiori di lavoro minorile, entrata in vigore il 19/11/2000). 

Un documento nel quale i firmatari promettevano di fare di tutto per “individuare e denunciare le forme peggiori di lavoro minorile”; di impedire che i minori intraprendano le forme peggiori di lavoro minorile o sottrarli ad esse, proteggerli dalle rappresaglie, garantire la loro riabilitazione e il loro reinserimento sociale mediante provvedimenti che tengano conto delle loro esigenze formative, fisiche e psicologiche; di prendere in particolare considerazione i minori di più tenera età, i minori di sesso femminile e il problema del lavoro svolto in situazioni che sfuggono agli sguardi di terzi, in cui le ragazze sono esposte a rischi particolari; di individuare le comunità nelle quali i minori sono esposti a rischi particolari, entrare in contatto diretto e lavorare con esse. Ultimo ma non ultimo l’accordo prevedeva anche l’obbligo di “informare, sensibilizzare e mobilitare l’opinione pubblica ed i gruppi interessati, compresi i minori e le loro famiglie” per ridurre il numero degli schiavi bambini. 

Eppure, stranamente, pare che questo comma sia scomaprso dalla memeoria dei governi di molti apesi sviluppati del pianeta. In Italia, in Francia o negli altri paesi europei. O negli USA. Perfino il Papa che lo scorso hanno aveva dedicato un tweet (meglio che niente) alla Giornata mondiale contro la piaga dello sfruttamento e della schiavitù dei più piccoli, “Chi si prende cura dei piccoli sta dalla parte di Dio e vince la cultura dello scarto. Liberiamo i bambini da ogni forma di sfruttamento”, oggi pare essersi dimenticato di loro. 

Tutto questo sembra non avere importanza di fronte ad un incendio, non si sa se dovuto a cause imprevedibili o a cattiva condotta di qualcuno – i media avranno mesi per dibattere l’argomento – ma che (fortunatamente) non ha causato morti nè feriti, nessuno ha perso la vita per questo. Al contrario, sono milioni i bambini vittime di moderne forme di schiavitù la cui vita è messa in pericolo ogni giorno . Ma di loro non sembra importare niente a nessuno.

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C.Alessandro Mauceri

C.Alessandro Mauceri

Sono nato a Palermo, città al centro del Mediterraneo, e la cultura mediterranea è da sempre parte di me. Amo viaggiare, esplorare la natura e capire il punto di vista della gente e il loro modus vivendi (anche quando è diverso dal mio). Quello che vedo, mi piace raccontarlo con la macchina fotografica o con la penna. Per questo scrivo, da sempre: lo facevo da ragazzino (i miei primi “articoli” risalgono a quando ero ancora scolaro e dei giornalisti de L’Ora mi chiesero di raccontare qualcosa). Che si tratti di un libro, uno studio di settore o un articolo, raramente mi limito a riportare una notizia: preferisco scavare a fondo e cercare, supportato da numeri e fatti, quello che c’è dietro. Poi, raccontarlo.

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