È stato un weekend di fuoco, quello appena trascorso in Venezuela, che ha visto scoppiare, lo scorso sabato, nuovi scontri violenti al confine con la Colombia. L’ondata di violenze ha provocato almeno 4 morti e centinaia di feriti, durante le proteste contro il blocco dei convogli umanitari proclamato da Maduro. Intanto, gli Stati Uniti, che per bocca del presidente Donald Trump e di Mike Pence hanno da sempre dichiarato di voler lasciare “tutte le opzioni sul tavolo” (compresa quella militare), sembrano aver alzato ulteriormente i toni, visto che il senatore repubblicano Marco Rubio, incaricato dal Commander-in-Chief di seguire l’evolversi della situazione nella repubblica bolivariana, ha twittato una foto del dittatore libico Muammar Gheddafi dopo il linciaggio del 2011. Un cinguettio, superfluo notarlo, che suona come un inquietante déjà vu e una funesta minaccia.
— Marco Rubio (@marcorubio) February 24, 2019
La questione è quindi arrivata ancora una volta al Palazzo di Vetro, sul tavolo del Consiglio di Sicurezza. Poco prima che si riunisse in una sessione fiume, che dal primo pomeriggio si è dilungata fino a sera, Elliott Abrams, diplomatico americano e rappresentante del Paese in Venezuela, ha annunciato di voler proporre questa settimana una risoluzione per forzare Maduro ad accettare l’ingresso degli aiuti umanitari nel Paese. Abrams ha anche espresso l’intenzione di imporre nuove sanzioni al Paese latinoamericano dopo gli ultimi scontri. Durante il Consiglio di Sicurezza, il diplomatico ha accusato il regime di aver dato fuoco ad alcuni dei convogli umanitari durante gli scontri di sabato, accusa che il ministro degli Esteri di Caracas, Jorge Arreaza, ha poi rispedito al mittente. Gli Stati Uniti hanno anche dichiarato di sostenere la possibilità che si tengano elezioni trasparenti ed eque.
Una ricostruzione, quella fornita da Abrams, decisamente rifiutata da Russia, Cina e dallo stesso Venezuela. L’ambasciatore russo Vasily Alekseevich Nebenzya, in particolare, ha esplicitamente accusato gli Stati Uniti di fomentare le tensioni e di non rispettare la sovranità di Caracas, e ha sostenuto che gli stessi manifestanti al confinte con la Colombia erano “aggressivi”, al punto che avrebbero lanciato bottiglie in fiamme. Il botta e risposta tra Washington e Mosca ha tenuto banco per un po’, al punto che l’ambasciatore americano Abrams e quello russo Nebenzya hanno rispettivamente richiesto la parola dopo l’intervento dell’avversario. Ad ogni modo, la versione di Mosca è stata del tutto confermata dal ministro degli Esteri venezuelano Arreaza, che ha puntato il dito contro “l’arroganza coloniale” dei suoi rivali in Consiglio, e ha sostenuto – mostrando alcune fotografie – che gli spari da parte delle forze di sicurezza venezuelane sono avvenuti in risposta all’aggressione giunta dal confine colombiano. Quindi, rivolgendosi direttamente ad Abrams, ha affermato con forza: “Il colpo di stato è fallito, il suo ultimo capitolo è stato quello di sabato. Ora è tempo di ritornare al rispetto della legge internazionale”.
Dal canto loro, i Paesi europei, membri attuali o recenti del Consiglio di Sicurezza (Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia, Svezia, Regno Unito), hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui riaffermano la loro linea: la condanna delle violenze, il sostegno all’entrata degli aiuti umanitari (ma “in pieno rispetto dei principi di umanità, neutralità, imparzialità, indipendenza”), l’appello perché si tengano nuove elezioni, il supporto all’Assemblea Nazioanle e a una soluzione pacifica. Già il 25 febbraio, mentre gli USA tenevano tutte le opzioni sul tavolo, l’Europa specificava in effetti di essere contraria a un intervento militare. Da notare, quel “pieno supporto all’Assemblea Nazionale”, che pure non si traduce in un esplicito sostegno all’autoproclamatosi presidente ad interim Guaidó, vista la presenza dell’Italia, che ufficialmente non riconosce quest’ultimo, e che in sede UE per ben due volte ha posto il veto su dichiarazioni ufficiali che andassero in quella direzione.
Quanto agli aiuti umanitari, la questione resta complessa. Dal canto suo Abrams, ai giornalisti che prima del Consiglio sottolineavano la probabilità che l’eventuale risoluzione USA si scontrasse contro il veto di Russia e Cina, rispondeva che “sarebbe vergognoso fermare una risoluzione che chiede aiuti umanitari”. Al contempo, però, ciò che la parte venezuelana teme è che quei convogli possano nascondere ben altro che solo cibo e medicine. In effetti, durante il suo lungo e infuocato intervento, Arreaza ha mostrato una fotografia che attesterebbe la presenza, nel camion dato alle fiamme sabato, di chiodi e altri materiali per costruire delle barricate. Ha anche aggiunto che la maggior parte dei feriti di cui i media hanno dato notizia appartenevano alle forze di sicurezza venezuelane.
Se la comunità internazionale resta quindi divisa sulla sorte della Repubblica bolivariana, il Segretario generale ONU, Antonio Guteres, ha ribadito l’appello ad evitare la violenza “ad ogni costo”, e l’uso della forza letale “in ogni circostanza”. Dopo i fatti di sabato, è giunta la condanna anche dell’ufficio di Michelle Bachelet, Alto Commissario per i Diritti Umani, che ha dichiarato: “Queste sono scene vergognose. Il governo venezuelano deve impedire alle sue forze di sicurezza di usare forza eccessiva contro manifestanti disarmati e cittadini ordinari”. Sempre in queste ore, Reporters Without Borders ha condannato la detenzione, per 7 ore, subita del giornalista di Univisión Jorge Ramos e da alcuni colleghi, presso il palazzo presidenziale Miraflores, sede del governo. Secondo quanto riferito da Ramos, l’episodio sarebbe accaduto durante una intervista, nella quale Maduro non avrebbe apprezzato il linguaggio utilizzato dal giornalista per rivolgersi a lui. Tutti segnali del discredito internazionale che circonda il Presidente venezuelano. Un discredito, però, non condiviso dai giganti dell’Est, che continuano a mettere in luce le contraddizioni occidentali. E mentre il Palazzo di Vetro resta imprigionato da queste dinamiche, resta da vedere fino a che punto si spingerà l’amministrazione Trump, e se resterà sulla soglia delle sue minacce, o piuttosto la varcherà.