María Fernanda Espinosa Garcés è stata eletta presidente della 73esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – il “parlamento dell’umanità”, come lo chiama lei – lo scorso giugno, la quarta donna a ricoprire quella carica nella storia, e la prima dal 2006 a questa parte. Prima di allora, Espinosa ha accumulato alle spalle una carriera ventennale in termini di politica, negoziati internazionali e multilateralismo: è stata infatti per due volte ministro degli Esteri dell’Ecuador, ma anche ministro della Difesa, nonché del Patrimonio Naturale e Culturale.
Il giorno prima di questa intervista esclusiva, ha avuto luogo un evento storico alle Nazioni Unite in cui la Presidente ha convocato per una riunione informale alcuni dei suoi predecessori, che poi hanno risposto alle domande dei giornalisti dell’UNCA, la United Nations Correspondents Association. Noi abbiamo chiesto come si fa a spiegare alla gente quanto potere abbia il Presidente dell’Assemblea Generale – argomento che ritroverete in questa intervista –. La risposta è stata univoca: il Presidente ha molti poteri, soprattutto di agenda, che realizza con il progredire del suo mandato. Ed è per questo, hanno aggiunto, che tale mandato “dura solo un anno”. Come contrappeso a ciò, i leader del “parlamento dell’umanità” hanno osservato quanto sarebbe strategicamente importante che, pur con l’avvicendarsi dei Presidenti, il loro staff mantenga invece il più possibile continuità.
Abbiamo incontrato Espinosa nel suo ufficio alle Nazioni Unite. Con lei, abbiamo parlato lungamente di migrazioni e diritti umani, ma anche del ruolo del Palazzo di Vetro e del metodo multilaterale nello scenario globale, della riforma dell’Organizzazione e del Consiglio di Sicurezza, nonché di libertà di stampa e delle priorità, delle funzioni e dei poteri del suo mandato.
Presidente, per prima cosa vorremmo toccare una questione che lei stessa ha sollevato quando è stata eletta, e cioè la crisi migratoria che sembra addirittura peggiore di quella che appare guardando ai numeri. Ci spiega cosa sta accadendo, visto dalle Nazioni Unite? Questa crisi è davvero quella che i media e i politici ci raccontano?
“Dobbiamo ricordarci che la storia dell’umanità è una storia di migrazione, in qualche modo. Non è un fenomeno inusuale. Dall’inizio della storia le persone si sono spostate da un posto all’altro per ragioni differenti: ecologiche, economiche, perché cercavano un futuro migliore. Per non parlare delle due guerre mondiali, con l’enorme esodo di ebrei minacciati dalla persecuzione nazista, accolti da tutti i Paesi del mondo, compresi quelli della mia regione d’origine, l’America Latina. Naturalmente, negli ultimi anni stiamo assistendo a un aumento dei numeri. Questo, a causa di conflitti, del cambiamento climatico, della mancanza di opportunità, specialmente per le generazioni più giovani, per quel che riguarda l’accesso alla scuola o al lavoro. Si possono ricercare diverse cause per le migrazioni, e devo dire che nessuno, nel pieno delle proprie facoltà, lascerebbe la propria famiglia, la propria patria, la propria casa, qualche volta la propria cultura solo per spirito di avventura. I migranti partono per via di situazioni che minacciano le loro vite e il loro futuro. Questo significa che, per sua stessa natura, l’immigrazione è una questione transfrontaliera, che richiede una risposta globale”.
Le Nazioni Unite hanno trovato questa risposta globale nel Global Compact for Migration, approvato dall’Assemblea Generale dopo la conferenza di Marrakech dello scorso dicembre. Eppure, diversi Paesi, come Stati Uniti e Italia, si sono chiamati fuori. Che cosa è andato storto? Forse questo patto sulle migrazioni non è stato spiegato bene?
“All’interno delle Nazioni Unite, con i suoi 193 membri, dubbiamo essere preparati a rispettare la decisione sovrana di un Paese sull’opportunità di partecipare o meno a una iniziativa. Dall’altra parte, è un vero peccato, visto il contenuto e la portata del Global Compact. Il patto non è legalmente vincolante, ma offre un quadro volto a incoraggiare lo scambio di buone pratiche, fornendo 23 linee guida per i Paesi, nel rispetto delle loro legislazioni e politiche nazionali. Purtroppo, c’è stata una grande campagna d’opinione contraria, specialmente sui social media, che ha diffuso messaggi falsi sulla natura del Compact. Talvolta, l’opinione pubblica giochi un ruolo importante nel mettere pressione ai politici. Sfortunatamente, dunque, alcuni Stati hanno detto no, nonostante vi siano Paesi e comunità che sono in prima persona il risultato di un processo di migrazione, e che, a un certo punto della loro storia, sono stati accolti dalla generosità di altri. Detto questo, penso che il Global Compact fornisca un buon contesto capace di incoraggiare allo scambio di informazioni e buone pratiche tra i Paesi, e anche alla condivisione degli oneri tra Paesi di origine, di transito e di destinazione. È uno strumento utile, ed è un peccato che ci sia stata questa campagna di disinformazione. Allo stesso tempo, bisogna rispettare il diritto sovrano dei Paesi che non sono pronti. In ogni caso, il Global Compact consente agli Stati di partecipare in qualunque momento lo ritengano opportuno, e abbiano avuto modo di studiarne approfonditamente i contenuti”.
Ci sono Paesi che non hanno firmato, e che chiudono i porti alle navi che recuperano i migranti in mare: parliamo di quello che sta accadendo nel Mar Mediterraneo. Qual è il suo augurio rispetto a questa situazione?
“I numeri sono eloquenti. Guardiamo allo scorso anno, per esempio. Circa 2300 persone sono morte o disperse nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Una vita persa è già troppo, e penso che si debba fare quello che è necessario per assicurarci che quelle persone godano della protezione a cui hanno diritto nel rispetto della legge internazionale, a cominciare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Quel documento parla di dignità umana, del diritto ad avere un rifugio sicuro, a vivere in un ambiente protetto. Penso che le persone che scappano dalla guerra, e da Paesi come la Siria e la Libia e altri ancora, abbiano bisogno di un posto sicuro. L’appello, quindi, è che, in merito ai diritti dei migranti, si osservino gli strumenti legali internazionali, oltre naturalmente alla legge nazionale.
Cambiamento climatico: siamo vicini a un punto di non ritorno. Che cosa possono fare nel concreto le Nazioni Unite, oltre che dare l’allarme? Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ci sono, ma sono sufficienti?
“Penso che il cambiamento climatico sia una delle più pressanti minacce alla stessa sopravvivenza dell’umanità. Abbiamo fatto grandi passi avanti con l’adozione della Convenzione ONU sul Cambiamento Climatico, il protocollo di Kyoto e gli accordi di Parigi: si tratta di uno sforzo e un impegno collettivo a ridurre le emissioni e a lavorare sull’adattamento al cambiamento climatico e sulla costruzione di società resilienti. In Polonia, ci siamo accordati sulle regole, sul programma di lavoro per mettere in pratica gli accordi di Parigi. Ma ora dobbiamo davvero accelerare la nostra azione, perché tutti i rapporti scientifici in proposito sono pessimisti, e ci dicono che non stiamo facendo ciò che dovremmo. Le emissioni aumentano, e si riducono le possibilità di riuscire a interrompere l’aumento delle temperature di 1,5 gradi se continuiamo con le stesse modalità di consumo e produzione”.
Gli Stati Uniti – uno degli Stati più importanti e influenti nell’ONU –, con l’amministrazione Trump, hanno su questo tema una posizione molto diversa. Cosa possono fare le Nazioni Unite?
“Talvolta, gli Stati membri decidono che non sono pronti a condividere la responsabilità di combattere il cambiamento climatico. Ma bisogna tenere in considerazione anche i governi locali, gli stati, le città negli Stati Uniti, che sono invece disposti a impegnarsi per realizzare gli accordi di Parigi. Uno stato come la California, una delle economie più grandi al mondo, ha fatto questa scelta: e questo è un grande segno di speranza. Non solo negli USA, ma in tutto il mondo, il ruolo dei sindaci e dei governi locali in questo senso è molto importante”.
“Tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ce n’è qualcuno che ritiene più importante di altri o rispetto al quale è più preoccupata?
“Penso che il pacchetto dei 17 Obiettivi sia molto forte, proprio perché sono tutti interconnessi. Non si può combattere povertà e ineguaglianza senza le istituzioni, la governance, le partnership necessarie. Lo stesso, ad esempio, per l’acqua e la sanità. Non si possono avere società sostenibili, che diano opportunità per tutti, se non si hanno lavori dignitosi. Non si può realizzare l’agenda 2030 se si lascia indietro la metà della popolazione: ecco gli obiettivi sull’equità di genere. Lo scopo è quello di fornire un kit di sopravvivenza per l’umanità, per fare in modo che le società siano più sostenibili, più eque, più inclusive, più prospere e con accesso generalizzato al lavoro. Se solo pensiamo che, per realizzare l’agenda 2030, dobbiamo creare 600 milioni di nuovi posti di lavoro, e che il 70% devono essere per le giovani generazioni, capiamo che la sfida è enorme”.
È soddisfatta del modo in cui i 193 Paesi si stanno comportando in tema di rispetto dell’equità di genere?
“Penso che ci siano progressi discontinui. Se guardiamo ai numeri in termini di povertà estrema, accesso al lavoro, equità dei salari, il gap è intorno al 20%. La stessa qualifica, lo stesso lavoro, ma il 20% in meno di stipendio perché si è donne. Anche sull’accesso per le donne a posizioni di potere si deve fare di più. Su 193 stati membri, solo 20 hanno una donna presidente. Se si guarda alla proporzione di parlamentari donne, siamo al 23%. Ma anche il livello di vulnerabilità delle donne in situazioni di cambiamento climatico è alto. Per non parlare della violenza domestica, le cui vittime sono in gran parte ragazze e donne. Una donna su tre nel mondo è o sarà vittima di violenza. A volte sembra che ripetiamo le stesse cose, ma e necessaria una azione decisa su questo tema, che è anche una delle mie priorità di quest’anno”.
All’inizio dell’Assemblea Generale a settembre, lei ha assistito al discorso del Segretario Generale, Antonio Guterres, e poi del presidente Donald Trump: il primo ha parlato di multilateralismo, l’altro di sovranità, portando due visioni del mondo opposte. In che modo le Nazioni Unite possono convincere le persone che non c’è alternativa al multilateralismo?
“Penso che si tratti di una falsa dicotomia, quella che oppone l’interesse nazionale alla necessità di guardare allo scenario globale e ad unire le forze. L’unico modo per risolvere le sfide globali è con una responsabilità collettiva in un contesto istituzionale multilaterale. La casa del multilateralismo è l’ONU. Naturalmente si può fare entrambe le cose. Pensiamo alla preoccupazione per un forte sistema sanitario per il proprio popolo. Non si può fare nulla di tutto ciò, se a livello globale non c’è chiarezza o impegno sulle malattie non trasmissibili. Lo scorso settembre, abbiamo lanciato una forte dichiarazione politica su queste malattie come una delle principali minacce alla salute umana. O ancora, non c’è modo di combattere il cambiamento climatico, senza una responsabilità condivisa e una leadership globale. La stessa cosa con il terrorismo”.
Il Segretario Generale stesso ha lanciato l’allarme in merito a una crisi del multilateralismo.
“Quando affermo che la dicotomia è falsa, non significa che la questione non esista. È necessario promuovere una narrativa forte, per affermare che l’unico modo per rispondere alle sfide globali che hanno un impatto sulla gente è attraverso l’azione multilaterale, la leadership globale e la responsabilità condivisa. Questo non significa che non stiamo assistendo a un esacerbarsi di nazionalismo e populismo estremi in molte parti del mondo, tendenza preoccupante. Allo stesso tempo, dobbiamo essere chiari sul valore aggiunto delle Nazioni Unite. Guardando alle situazioni di crisi umanitaria, l’architettura dell’ONU è presente. Se guardiamo ai conflitti, abbiamo 100mila peacekeeper in giro per il mondo, in 14 Paesi con 14 diverse operazioni. Abbiamo un Alto Commissario per i Rifugiati, siamo sul terreno, ci occupiamo davvero della vita delle persone e la cambiamo. Lo stiamo facendo, ma dobbiamo essere più forti e audaci nel diffondere questo messaggio”.
Qual è a suo avviso la riforma del sistema ONU più urgente?
“Non penso che ne sia una in particolare. Penso sia un processo che dovrebbe portare insieme tutte le parti dell’Organizzazione. Quest’anno, affrontiamo la grande sfida di implementare tre processi di riforma: quella amministrativa, lo sviluppo di una nuova architettura e un nuovo modello di pace e sicurezza. La sfida è quella di portare avanti i tre pilastri della riforma adottata dagli Stati membri e proposta dal Segretari Generale. Stiamo anche lavorando duramente per ottenere un buon risultato nel rilancio dell’Assemblea Generale. È il parlamento dell’umanità e deve essere più efficace e meno burocratico: un obiettivo molto importante per me”.
Parlando del potere del Presidente, pensa che i suoi predecessori abbiano fatto un uso completo di quei poteri? E lei?
“Penso di essere stata molto coraggiosa nello stabilire sette priorità del mio lavoro, e nel farlo, nei miei primi 4 mesi, abbiamo passato anche dei momenti di tensione. Bisogna davvero prendere l’iniziativa e decidere sulla base di quello che si ha, delle possibilità che i limiti procedurali permettono di avere. Pensiamo alla risoluzione su Hamas, o alla scelta della Palestina come leader del G77. Queste decisioni procedurali, in ultima istanza, sono anche politiche. Quando al ruolo normativo dell’Assemblea Generale, bisogna accertarsi che tutte le sei commissioni svolgano il proprio lavoro puntualmente e con qualità. Abbiamo approvato più di 260 risoluzioni quest’anno, ognuna delle quali ha richiesto grandi sforzi di negoziazione. Ho ricevuto più di 50 incarichi come presidente dell’Assemblea. Il mio lavoro dipende molto dall’impegno degli Stati membri, ma bisogna avere anche una posizione di guida, di incoraggiamento, accertandosi di raggiungere il consenso sulle questioni”.
Come dovrebbe essere a suo avviso la riforma del Consiglio di Sicurezza?
“È una questione molto complicata, forse la più divisiva nell’Assemblea, che richiede la volontà politica degli Stati membri. Penso che in questa situazione si possa guidare il processo, ma non sia saggio sostituire il volere dell’Assemblea, cioè quello di 193 Paesi che hanno visioni molto differenti. Alcuni sono più interessati a migliorare i metodi di lavoro del Consiglio, altri a modificarne la composizione, altri sostengono si debbano fare entrambe le cose, altri ancora vogliono conservare lo status quo. Il mio ruolo è quello di assicurarmi che il processo della riforma continui in modo trasparente e inclusivo, ma penso che la mia idea personale non conti”.
Qualche giorno fa, durante il Super Bowl, il Washington Post ha lanciato una campagna per esaltare il valore della libertà di stampa. Pensa che su questo le Nazioni Unite debbano fare di più?
“Credo che ogni campagna, ogni iniziativa per proteggere il principio della libertà di espressione e di stampa debba essere valorizzato. Ma, in merito alle Nazioni Unite, devo ricordare che c’è uno Special Rapporteur sulla libertà di espressione, che è parte della procedura speciale del Consiglio dei Diritti Umani. La Commissione per la protezione dei giornalisti ci fornisce dati, per lo scorso anno, molti preoccupanti: 53 giornalisti uccisi solo nel 2018. Uno solo sarebbe già troppo. Sul caso Khashoggi, ho sin dall’inizio lanciato un appello per una indagine urgente e indipendente. Come sappiamo, Agnes Callamard, Special Rapporteur sulle esecuzioni, ha già completato parte dell’indagine e spero che avremo presto a disposizione il suo rapporto. Credo anche che dobbiamo stare attenti a non duplicare, visto che abbiamo già la struttura necessaria, sotto il cappello del Consiglio dei Diritti Umani. Poi, ci sono le procedure speciali, la Commissione per la protezione dei giornalisti, l’opinione pubblica, e voi giornalisti. In merito alla campagna del Washington Post, penso che dovremmo lavorare tutti insieme a iniziative del genere. Le Nazioni Unite, ovviamente, sono ricettive. L’ONU non è un corpo astratto: gli Stati membri, il Segretariato, tutte le sue parti lavorano insieme. Penso che stiamo facendo la nostra parte”.
Intervista di Stefano Vaccara
Testo e video a cura di Giulia Pozzi