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Libia, Salame ottimista in attesa di Palermo, ma per i migranti è ancora l’inferno

Il 12 e 13 novembre il capoluogo siciliano ospiterà una conferenza con le varie fazioni. Ma il Guardian riaccende i riflettori sui diritti umani

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Libia, Salame ottimista in attesa di Palermo, ma per i migranti è ancora l’inferno

UNHCR/Tarik Argaz Una donna di fronte alla propria casa, distrutta, dove è tornata dopo l'inizio del cessate il fuoco.

Time: 4 mins read

Dopo la conferenza sulla Libia organizzata da Emmanuel Macron a Parigi lo scorso maggio – che, tra le altre cose, si impegnava a stabilire una roadmap, poi fallita, che avrebbe condotto alle elezioni a dicembre – è ora la volta dell’Italia. Palermo, infatti, ospiterà una nuova conferenza a cui dovrebbero partecipale tutti i principali player nazionali coinvolti nella crisi e quelli internazionali impegnati nelle iniziative diplomatiche. Tutti, s’intende, tranne la cancelliera Angela Merkel, sostituita, sembra, dal ministro degli Esteri Niels Annen, e, probabilmente, Emmanuel Macron, “grande rivale” degli interessi italici nel Paese nordafricano. Dovrebbe invece partecipare il generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica e principale oppositore del governo di unità nazionale, senza il quale ogni conversazione sul futuro della Libia si rivelerebbe del tutto inutile.

Proprio in vista di questo importante appuntamento, sul quale puntano il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Enzo Moavero, l’inviato speciale del Segretario Generale in Libia Ghassan Salame ha fatto il punto, in Consiglio di Sicurezza, sullo stato dell’arte a Tripoli, dove il recente cessate il fuoco negoziato e ottenuto dalle Nazioni Unite pare reggere. Salame, collegato in videoconferenza, ha fatto sapere che è in vigore un nuovo piano di sicurezza e che molti gruppi armati hanno lasciato gli edifici governativi chiave che prima occupavano. 

“In prospettiva, la città dovrebbe essere protetta da forze di polizia regolari e disciplinate”, ha affermato il Rappresentante speciale, aggiungendo che i gruppi armati si sono anche detti disponibili a riconsegnare alle autorità il controllo del porto e del terminale civile dell’aeroporto.

Cauto ottimismo, dunque, da parte di Salame, che ha parlato di un “fragile ma palpabile” senso di miglioramento a Tripoli. Un modello, ha spiegato, che potrebbe essere replicato ovunque nel Paese. Di certo, sarà necessario attendere i risultati della Conferenza di Palermo e in particolare del dialogo tra Fayez al Sarraj, il generale Haftar, Aguila Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk, e Khalid Al Meshri, capo dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli.

Una dialogo dall’esito tutt’altro che scontato, al punto che, dallo stesso Governo italiano, emerge un atteggiamento di sostanziale prudenza: secondo il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, “non bisogna aspettarsi che ci siano dei documenti da firmare”, ma “il successo che può raggiungere questa conferenza è quello di riuscire a creare e a favorire un dialogo”. Dal canto suo, l’Inviato Speciale ha però addirittura parlato di elezioni, da tenersi nella prima parte del 2019. Un annuncio che, per la prima volta, smentisce de facto la data francese del 10 dicembre, impegno che pure già da tempo era sembrato troppo difficile da mantenere. Salame ha invece parlato di una “Conferenza Nazionale” nelle prime settimane del 2019, che dovrà porre le basi per il processo elettorale della primavera 2019.

Eppure, alle difficoltà legate al processo politico continua a corrispondere una situazione sul campo di enorme instabilità e conseguenti violazioni dei diritti umani. Lo stesso giorno in cui Salame esponeva il suo rapporto al Consiglio di Sicurezza, il Guardian pubblicava la fortissima testimonianza di un rifugiato eritreo chiuso in un campo libico, lì internato dopo che la Guardia Costiera libica, in virtù dell’accordo tra Roma e Tripoli del febbraio 2017, ha bloccato il suo viaggio verso l’Europa riportando nel Paese nordafricano tutti i passeggeri della barca su cui viaggiava. Ne consigliamo caldamente la lettura integrale per capire che cos’è davvero, per i migranti, quello che il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini fino a poco tempo fa si ostinava a definire “porto sicuro”. Per i più frettolosi, concludiamo, senza ulteriori commenti, riportando tre del passi più eclatanti.

[…] Due settimane fa, un somalo si è ucciso prendendo benzina da un generatore e dandosi fuoco. Il suo nome era Abdulaziz e aveva 28 anni. Aveva aspettato nove mesi il momento di lasciare quel campo. Era un brav’uomo: all’arrivo dei funzionari dell’UNHCR, ha chiesto loro perché era stato costretto a trascorrere così tanto tempo in prigione. L’ultima volta che sono venuti, ha detto di essere stato respinto dall’Organizzazione. Quindi, ha preso la benzina. Aveva perso la speranzadi poter avere il sostegno dell’UNHCR, dopo aver atteso così tanto tempo di essere trasferito in un paese sicuro. Altri sette quest’anno sono morti per le stesse ragioni. Nessuno si assume la responsabilità di noi prigionieri. La nostra unica necessità è di lasciare la Libia, perché la Libia non ha un governo. Sono eritreo, non posso tornare a casa. Altre persone potrebbero avere una scelta, ma non eritrei, somali, sudanesi.

 

Nel frattempo i paesi dell’UE stanno facendo giochetti, specialmente in Italia. L’Eritrea è stata colonizzata dall’Italia per un lungo periodo. Per la gente eritrea ancora non c’è libertà, e l’Italia ha contribuito a ciò direttamente o indirettamente. Il mio paese è una dittatura. Sembra che i paesi dell’UE non vogliano che gli africani progrediscano, siano intelligenti, istruiti e così via. Ecco perché lo stanno facendo. Stanno uccidendo il nostro tempo, uccidendo il nostro cervello. È come la guerra fredda. Le nostre condizioni peggiorano sempre. Non c’è abbastanza cibo e la gente beve l’acqua della toilette.

 

[…] Quando l’UNHCR e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ci forniscono generi di prima necessità come prodotti per l’igiene o coperte, scattano alcune foto. Poi, quando se ne vanno, le guardie si prendono tutto e lo vendono. IOM e UNHCR conoscono bene questo gioco, ma non fanno nulla. Fingono di non sapere. A volte le guardie ci picchiano di fronte a loro e loro non le fermano. Dobbiamo chiedere alle nostre famiglie di inviarci denaro per cibo e prodotti per l’igiene. I soldi arrivano attraverso il mercato nero e le guardie si prendono il 40%. Altrimenti moriremmo. Recentemente abbiamo cercato di buttar giù la porta e scappare, ma non ce l’abbiamo fatta. Le guardie ci hanno fermato con pistole e catene.

Attendiamo di capire se le agenzie ONU che si occupano di migranti e rifugiati vorranno commentare queste affermazioni.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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