“Sono la voce globale in tema di diritti umani universali; sono stato eletto da tutti i governi, e li critico tutti”. Con questa dichiarazione, il principe giordano Zeid Ra’ad Al Hussein, da settembre 2014 Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, esplicitava alla platea di ospiti del gala della Peace, Justice and Security Foundation (2016) il manifesto programmatico del proprio mandato. Una vocazione, quella di “speak out”, di “parlare” – senza giri di parole e riguardo a questioni estremamente controverse – ampiamente confermata anche durante la conferenza presso la United Nations Correspondents Association (UNCA), tenutasi praticamente al termine del primo, e si apprende anche ultimo, mandato del principe giordano alla guida dell’OHCHR. L’evento è stato condotto dal presidente dell’UNCA Sherwin Bryce-Pease.
Durante il gala di due anni fa, Al Hussein lasciò tutti a bocca aperta criticando esplicitamente gli esponenti dei principali partiti populisti mondiali – Wilders, Trump, Orban, Zeman, Hofer, Fico, Le Pen, Farage -, ed equiparando in certo qual modo la loro retorica a quella dei terroristi di Daesh. “I populisti usano mezze verità e un’ipersemplificazione – i due bisturi dell’arco della propaganda, e qui internet e i social media sono i binari perfetti per loro, riducendo i loro messaggi in piccoli blocchi: sound-bytes, tweet”, tuonò da quel podio. “Non si aspettavano un discorso come quello”, ha confessato a posteriori il Commissario durante l’incontro con la stampa. “Ma bisognava dire qualcosa”. La fonte d’ispirazione di quelle dichiarazioni fu il “grottesco” (parole sue) manifesto in undici punti dell’olandese Geert Wilders: “Non ripeterò quello che ha detto, ma ci sono molti che lo faranno, e si prevede che il suo partito andrà bene alle elezioni di marzo”. Quella previsione si rivelò corretta.
Durante l’incontro con i corrispondenti alle Nazioni Unite, a quella lista, Al Hussein ha aggiunto, en passant, anche il vicepremier italiano Matteo Salvini. Ma le parole di fuoco le ha riservate soprattutto a Trump. Nel periodo in cui l’attuale Presidente era ancora un candidato, ha raccontato Al Hussein, “sono stato intervistato da diverse testate”. In quel caso, le sue critiche non erano finalizzate a “interferire con il processo elettorale”, ma erano motivate dal fatto che le uscite del futuro Commander-in-Chief avevano conseguenze potenzialmente tanto pervasive che “parlare”, “speak out”, diveniva necessario. “Ho continuato a parlare anche dopo”, ha proseguito il Commissario, “e ho espresso preoccupazione non solo per gli attacchi contro i media, ma anche per ciò che a mio avviso si avvicinava all’incitamento all’odio”. Il principale timore, ha fatto capire Al Hussein, era (ed è) che i frequenti e appuntiti strali lanciati da Trump alla stampa potessero risultare in una limitazione della libertà di espressione. Non solo. Si ha come la sensazione, ha dichiarato il principe giordano, che non si sappia che direzione stia prendendo, in tema di diritti umani, uno dei principali leader del mondo. E ha ricordato che il rispetto dei diritti umani è sancito da leggi e trattati: “Sono vincolanti, non è qualcosa di relativo”, ha affermato.

Più cauta, la risposta riservata dal Commissario a noi della Voce, che gli abbiamo chiesto conto della questione migratoria e di quanto sta accadendo in Libia. Lo scorso novembre, infatti – è bene ricordarlo -, proprio Al Hussein definì “inumano” l’accordo che l’allora governo Gentiloni strinse con Tripoli, per impedire le partenze dei migranti dal Paese nordafricano. Una finalità perseguita, e in questo caso sbandierata fieramente, anche dall’attuale Esecutivo, nonostante il puntuale monito di allora dell’Alto Commissario per i Diritti Umani. C’è stato forse qualcuno, abbiamo allora chiesto noi, che, dall’ONU, non è stato abbastanza chiaro nel condannare certe politiche verso i migranti? Al Hussein l’ha presa alla lontana: “Il 95% della popolazione mondiale non si sta spostando. Quando si guarda alle migrazioni, i numeri sono relativamente modesti, a confronto dell’ampiezza delle isterie e delle reazioni. Il vero problema mi sembra la xenofobia”, ha puntualizzato: “Allora, una sola persona [straniera – ndr] diventa troppo”. Il Commissario ha quindi ricordato la sua visita a Tripoli dello scorso ottobre, che lo ha profondamente colpito. “Non posso dire perché altri ufficiali delle Nazioni Unite non parlino”, ha poi detto. “Parlare non è facile: se lo fosse, molte altre persone lo farebbero”, ha constatato. “Non ho rimpianti, ho detto quel che ho detto, e quando ho sbagliato l’ho ammesso”, ha chiosato.
Ancora una volta: “speak out”, “parlare”, anche di argomenti scomodi. “Preferisco aver fatto un errore parlando, piuttosto che pentirmi di non averlo fatto”, ha dichiarato Al Hussein in un altro momento della conferenza. E quando qualcuno gli ha chiesto conto delle eventuali “pressioni” ricevute da Governi e Stati, il Commissario ha risposto che le maggior pressione, in questo caso positiva, l’ha percepita dalla società civile, che spesso ha apprezzato la sua franchezza.
Qualcun altro, però, potrebbe non averla apprezzata allo stesso modo. Non è un caso che la sua decisione di non correre per un altro mandato – pratica consolidata per le alte cariche ONU – abbia suscitato un certo stupore. È possibile che quel suo modo di fare senza filtri, e le sue prese di posizione non popolari su molti temi, abbiano provocato qualche mal di pancia? Di certo, al Palazzo di Vetro si sono formate due scuole di pensiero: c’è chi lo considera un Commissario coraggioso, e chi, al contrario, piuttosto inefficace e controproducente proprio per quella sua autenticità senza filtri. Di certo, non sarà piaciuta a tutti neppure la sua constatazione secondo cui “le Nazioni Unite sono sintomatiche del più ampio quadro globale. Sono semplicemente grandi o patetiche come lo stato prevalente della scena politica del tempo”. Dell’ONU ha anche dichiarato che “troppo spesso, non ha altro che parole, risoluzioni, dichiarazioni. A volte mi chiedo: qual è lo scopo?”. Ma ciò che più lo ha messo nell’occhio del ciclone è stata la sua indefessa critica a ciò che ha definito un “nazionalismo aggressivo, macho, sciovinista”. Qualcuno lo ha addirittura accusato di antisemitismo per i timori espressi sulle condizioni dei palestinesi di Gaza. Ma lui – principe arabo il cui eroe è Ben Ferencz, accusatore dei nazisti nel processo di Norimberga – ha vigorosamente respinto tutte le accuse.
“Dopo attenta riflessione, ho deciso di non candidarmi per un secondo mandato di quattro anni”, aveva spiegato, in una breve nota, nell’annunciare la sua decisione. “Per farlo, nell’attuale contesto geopolitico, potrebbe essere necessario inginocchiarsi in supplica; silenziare una dichiarazione di advocacy; diminuire l’indipendenza e l’integrità della mia voce, che è la vostra voce”. Forse, in queste poche righe e in mezzo a tanti sottintesi, si annida la verità sulla sua decisione. Ma nei corridoi del Palazzo di Vetro c’è anche chi parla di pressioni, in questo senso, “giordane, saudite e americane”. Quel che è certo è che pochi potenti lo rimpiangeranno. Il senso del suo mandato, però, l’ha riassunto in una e-mail indirizzata al suo staff, citata dal New York Times: “Ci sono molti mesi davanti a noi: mesi di lotte, forse, e persino dolore – perché, sebbene l’anno passato sia stato arduo per molti di noi, è stato terribile per molte delle persone per le quali lavoriamo”.
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