Ricorre oggi il 20° anniversario della firma dello Statuto di Roma, il trattato che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale, tribunale sovranazionale che compete per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
La corte Penale Internazionale non è propriamente un organo dell’ONU, ma interviene nella circostanza in cui uno stato non può o non dimostra l’intenzione di agire contro determinati crimini. La sovranità della corte si estende a tutti gli stati che hanno firmato e adottato il trattato. Ad oggi, gli stati ratificanti sono 123, tra cui brillano le eccezioni di Cina, Russia, Pakistan e Stati Uniti.

Durante l’evento tenutosi oggi, martedì 17 luglio, al palazzo di vetro, l’ambasciatore Inigo Lambertini, il numero due della missione italiana all’ONU, ha rimarcato il supporto dell’Italia alla corte penale internazionale, nonché ai principi che furono alla base della sottoscrizione dello statuto di Roma. Tramite il suo rappresentante, l’Italia, che si candida al Consiglio per i Diritti Umani per il triennio 2019-2022, incoraggia fortemente gli stati che ancora non ne fanno parte ad apporre la propria firma allo statuto, che vede nell’essere umano e nei suoi diritti il centro del dibattito. L’augurio è quello di contribuire a estirpare futuri comportamenti criminali, reprimendo e condannando le atrocità nel presente.

Tornando indietro nella storia, però, ci accorgiamo di come l’accordo si è dimostrato critico fin dalle sue fasi embrionali: l’opposizione di Washington fu repentina e intransigente, tanto che il governo americano, a tutt’oggi, si rifiuta di apporre la propria firma. Fondamentale, invece, sin dall’inizio, fu l’apporto del governo italiano: non solo ospitò i lavori della conferenza, ma li pagò di tasca propria. Fu un processo lungo e ricco di colpi di scena, che vide una forte partecipazione popolare, grazie alla quale si arginò il tentativo di rimandare i lavori a una successiva conferenza in Norvegia.
Nel corso degli anni, diverse sono state le critiche mosse verso la Corte, tra cui quelle di razzismo mosse dagli stati africani, culminate con la fuoriuscita dall’accordo del Burundi, evento che venne definito storico dallo stesso presidente Bujumbura, che affermò “La corte penale internazionale si è dimostrata essere uno strumento e un’arma utilizzate dall’ovest per ridurre in schiavitù altri stati. [L’uscita dall’accordo] rappresenta una grande vittoria perché difende la sovranità e l’orgoglio nazionale’’.

È di pochi giorni fa la notizia che gli Stati Uniti hanno disatteso un incontro informale per le celebrazioni del 20 anniversario, fatto particolarmente strano, considerando che parliamo di uno stato che non ha firmato il trattato. Forse centrano le intenzioni, emerse lo scorso ottobre, da parte dell’attuale prosecutor dell’ICC Fatou Bensouda, di aprire un procedimento per possibili atti di tortura da parte di esponenti della CIA a danni delle popolazione afgane. Secondo Bensouda ci sarebbero prove evidenti di questi crimini, nonché l’impossibilità dell’Afghanistan, che ricordiamo essere uno stato firmatario, di proseguire con qualsivoglia azione legale. L’azione, è da precisare, si sviluppa di proprio motu da parte del prosecutor ed è ancora nelle fasi preliminari.
Molti sono i detrattori della Corte, che adducono pretesti economici (costi enormi per la sua gestione), pseudo razzisti o di non-riconoscimento come organo super partes (ad esempio, la Cina non riconosce all’organo alcun tipo di autorità). Sta di fatto però che, ad oggi, la Corte rappresenta un caposaldo della giustizia internazionale e che il mondo sarebbe un posto molto più buio senza di essa.