Mentre la crisi venezuelana non da segni di tregua, le Nazioni Unite si stanno muovendo per cercare di limitarne i danni, per quanto possibile, che colpiscono centinaia di migliaia di persone. Infatti, dal 2014, la situazione non accenna a migliorare, e da quell’anno, secondo l’UNHCR – l’agenzia ONU che si occupa di rifugiati e richiedenti asilo – c’è stato un aumento del numero di venezuelani richiedenti asilo in tutto il mondo del 2000 percento.
Ma il dato più allarmante è che il numero totale di applicant per lo status di rifugiati è duplicato negli ultimi due anni. Ciò significa che questo popolo colpito dal caos economico, politico e sociale, vive una situazione precaria non solo nel proprio Paese ma anche in quelli ospitanti, che spesso non sono in grado di gestire la ‘crisi rifugiati’, a causa di arrivi massivi.
Preoccupante per noi italiani, visto che gli italo-venezuelani sono numerosissimi; ma allarmante anche per tutti gli esseri umani in quanto “disastro umanitario”, come l’ha definito David Beasley, Direttore Esecutivo del World Food Program. Infatti, anche il WFP è intervenuto, dichiarando attraverso Beasley che urge una cooperazione internazionale che si occupi anche di assicurare che Paesi come Colombia, Brasile ed Ecuador ricevano il supporto di cui hanno bisogno.
Anche Human Rights Watch sta facendo sentire in questi mesi la sua voce, appellandosi ai governi vicini affinché mettano pressione all’amministrazione di Nicolas Maduro perché “riconosca ufficialmente l’esistenza della crisi e applichi le misure necessarie per combatterla”.
“I Paesi vicini, come Colombia, Ecuador e Panama faticano a rispondere all’enorme numero di famiglie che sono arrivate negli ultimi mesi. Le autorità ci dicono che urge cooperazione internazionale per rispondere alla situazione”, ha detto Christian Visnes, il direttore per l’NRC (Norwegian Refugee Council) in Colombia. “La comunità internazionale e i governi nella regione devono unire le loro forze immediatamente perché si riesca a fornire la protezione necessaria e l’assistenza umanitaria”.
“In Colombia, molti venezuelani si dirigono in zone pericolose, e devono affrontare rischi gravi di protezione, come il reclutamento forzato, lo sfruttamento sessuale, abusi, scomparse, minacce e morte. Ne hanno bisogno ora”, ha continuato Visnes. E non è da meno la situazione negli altri Paesi vicini, dove i rifugiati hanno bisogno di beni di prima necessità, servizi educativi, documentazioni e servizi sanitari basici.
E molto spesso non è nemmeno garantito loro lo status d’asilo, a causa del poco coordinamento tra i vari Paesi della zona. Ma a riguardo si sta agendo, e la cooperazione aumenta sempre di più, se non altro per la necessità di una risposta unanime; sia da parte di Stati, che da parte delle organizzazioni internazionali.
Ma non è tutto. Il popolo venezuelano è vessato, e la situazione più critica la affronta chi rimane. Il Paese sta attraversando la peggiore crisi economica della sua storia, che ha portato alla precarietà dei servizi basici e fortissimi tassi di disoccupazione. E altri dati ci dicono che il tracollo sta avvenendo anche dal punto di vista sociale. Il Venezuela si è trasformato infatti nel Paese più violento – tra quelli che non stanno attraversando un conflitto – del mondo, con un tasso di omicidio che è dieci volte quello medio mondiale (riferito al 2017): 89 morti ogni 100.000.
L’UNICEF ha inoltre dichiarato che l’insicurezza alimentare sta toccando picchi altissimi e si sta diffondendo particolarmente la malnutrizione infantile, rispetto a tutti gli altri effetti della crisi economica. L’agenzia ONU sta lavorando con i Ministeri – soprattutto quello della salute – e molte associazioni civili per rafforzare e espandere la sorveglianza nutrizionale a livello della comunità e fornire servizi di recupero nutritivo attraverso altre organizzazioni. Gli sforzi sono stati implementati attraverso attività di screening nutrizionale – con l’obiettivo di raggiungere almeno 113.000 bambini – , distribuzione di beni alimentari, training e campagne di comunicazione.

Ma non è mai abbastanza. Come si è arrivati a tanto, in un Paese così ricco di risorse naturali? Infatti, il Venezuela è il Paese che ha la più grande riserva petrolifera del mondo e per anni è stato uno dei Paesi più ricchi del Latino America, e anche tra i più democratici.
Le cose, però, sono cambiate nel 2013, con l’elezione di Nicolás Maduro che, nonostante abbia attualmente meno del 20% del consenso della popolazione, non ha fatto altro che consolidare il suo potere attraverso la repressione e trasformare il Paese in una dittatura.
Il suo predecessore era stato Hugo Chávez, fautore della ‘Rivoluzione Bolivariana’ e ampliamente sostenuto dal suo popolo. Durante i suoi mandati, il Paese fu invaso da riforme e miglioramenti, e la povertà fu ridotta in quasi 15 anni della metà, attraverso riforme sanitarie, miglioramenti del sistema educativo e l’abbassamento del prezzo del cibo.
Ma le spese sociali affrontate da Chávez non avevano copertura, e mentre il benessere saliva, saliva anche l’inflazione, e il PIL scendeva – lentamente. E il trend ha continuato così – peggiorando drasticamente dal 2014 in poi – fino ai valori attuali, insostenibili, che hanno reso la moneta venezuelana, il bolívar, sostanzialmente inutile. La Petróleos de Venezuela, S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera di proprietà dello Stato è in grave ritardo nei pagamenti e il Paese sembra arrancare per sfuggire il collasso.

La tensione politica iniziò a peggiorare con le elezioni del 2015, dopo che l’inflazione aveva già iniziato la sua grande scalata, e dopo le violente manifestazioni del 2014 che avevano portato all’arresto di Leopoldo López, il maggior leader di Voluntad Popular, uno dei partiti contrapposti a Maduro.
E continuò con violenti scontri soprattutto nel 2017, quando Maduro diventò ufficialmente dittatore agli occhi di tutto il mondo, negando ogni spazio all’opposizione e continuando la repressione nei confronti degli altri partiti ma anche dei manifestanti, con numerosi arresti di vari leader.
Ed è sempre nel 2017, con le elezioni della Costituente, che si scatenò una violenta reazione anche a livello internazionale. Dopo i risultati ‘truffa’, Gli USA dichiararono sanzioni nei confronti del dittatore.
La risposta di Maduro è stata quella di istituire una cryptocurrency basata sul prezzo del petrolio, il pedro – la prima cryptocurrency emessa da un Paese – sostanzialmente pensata per aggirare le sanzioni americane.
“Per grandi problemi, grandi soluzioni” aveva detto Maduro durante una cerimonia in quei giorni. “Noi venezuelani siamo indomabili”.
E non sono bastate le avances del dittatore a Trump. Infatti, il 19 febbraio, Maduro aveva twittato: Donald Trump ha fatto campagne per la non intromissione negli affari interni di altri Paesi. E’ arrivato il momento di mantenere la promessa e cambiare la sua agenda di aggressione con una di dialogo. Dialogo a Caracas o a Washington DC?”

Ma la risposta non ha tardato tanto a farsi attendere, e anche il pedro ha ricevuto una forte batosta dal governo Trump, che lo ha bandito dichiarando il 19 marzo che “tutte le transazioni effettuate da una ‘persona’ statunitense, o dentro gli Stati Uniti, che siano legate a […] qualsiasi tipo di moneta digitale emessa dal Governo del Venezuela il o dopo il 9 gennaio 2018, sono proibite dal giorno in cui è stato emesso questo ordine”.
Le prossime elezioni si sarebbero dovute svolgere ad aprile di quest’anno, o almeno così era stato votato unanimamente l’Assemblea Nazionale, e Maduro si era dichiarato “pronto per essere un candidato”, forte della divisione che stavano attraversando gli avversari.
Ma ci sono tante cose che Maduro non si aspettava. Così, le elezioni sono state rimandate al 20 maggio, perché evidentemente il dittatore non era poi così pronto, e gli serviva più tempo per prepararsi. E allo stesso tempo, diversi Paesi come Stati Uniti e Colombia, hanno già dichiarato che non riconosceranno i risultati delle elezioni.
Maduro, intanto, continua gli arresti, come quello dell’ex Ministro Miguel Rodríguez Torres – grande sostenitore di Chávez – per “atti armati e cospirazione nei confronti della Costituzione”. Si prende tutto il tempo che vuole, senza guardare all’opposizione, che si sta riorganizzando per boicottare le elezioni, agli appelli della comunità internazionale sempre più unita ma soprattutto agli appelli del suo popolo. Sia quello che è rimasto e sta per morire di fame, sia quello che se n’è andato, che “è cruciale non riportare indietro”, ha dichiarato l’UNHCR il 13 marzo.