“Prove incontrovertibili dimostrano che i migranti generano benefici economici, sociali e culturali ovunque nelle società che li accolgono. Eppure l’ostilità verso i migranti è purtroppo in crescita in tutto il mondo. La solidarietà verso i migranti non è mai stata tanto urgente e necessaria”. Non ha usato mezzi termini il segretario generale Antonio Guterres, nel suo messaggio in occasione della Giornata internazionale per i Migranti. Giornata che riporta l’attenzione della comunità internazionale su una delle grandi emergenze umanitarie del nostro secolo, quella legata appunto alle migrazioni in corso da tante aree del mondo, determinate da conflitti, povertà, carestie, siccità e crisi climatiche. Un tema che, come ha sottolineato Guterres, è molto dibattuto anche in Occidente, ed è diventato negli ultimi anni assoluto protagonista delle agende politiche e – soprattutto – elettorali europee e americane. Perché, non dimentichiamocelo, alla Casa Bianca siede il candidato che sull’immigrazione (o, per meglio dire, “contro” l’immigrazione) ha costruito il grosso della sua campagna elettorale, e in tutta Europa le destre protettrici dei confini e delle “identità nazionali” stanno sempre più riacquistando consenso.
E’ dunque in questo clima che, quest’anno, si celebra la Giornata internazionale per i Migranti, in un periodo in cui l’attenzione del Consiglio di Sicurezza ONU e della comunità internazionale è in modo particolare concentrata sulla Libia e sull’Africa. E questo – bisogna riconoscerlo – per merito dell’Italia, che, in occasione della sua presidenza del Consiglio nel mese di novembre, ha riportato il tema del Mediterraneo – fino a poco tempo fa considerato di pertinenza neppure europea, ma principalmente italiana – sul tavolo delle Nazioni Unite. Ma i numerosi dibattiti dedicati all’argomento hanno portato alla luce, indubbiamente, anche tante domande senza risposta. Principalmente sulle tempistiche della roadmap umanitaria necessaria per alleviare le sofferenze dei tanti migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici, argomento sul quale, peraltro, è emersa anche qualche tensione tra Italia e Nazioni Unite. Tensione esplosa soprattutto dopo il rimprovero dell’Alto Commissario per i Diritti Umani Zeid Ra’ ad Al Hussein – che ha definito “disumano” l’accordo negoziato dall’Italia con Tripoli -, a cui è seguita l’eloquente risposta di Alfano – diretta, a suo dire, a chi ama “fare il professore”, ma latita poi nell’agire concretamente -:“Meno lezioni, più buone azioni”. Una risposta interpretabile come un “incoraggiamento” diretto all’ONU e alle sue agenzie (UNHCR e OIM in primis) a intervenire direttamente in loco, a maggior ragione dopo che l’Italia si è impegnata a stanziare fondi nazionali per facilitarne le iniziative. La vexata quaestio, in particolare, riguarda le tempistiche degli interventi di UNHCR e OIM sugli ormai tristemente celebri centri di detenzione: interventi che l’Italia caldeggia ma che, secondo l’ONU, non potranno iniziare compiutamente finché non saranno ripristinate stabilità politica e sicurezza nel Paese nordafricano.
I riflettori sulla questione si sono a maggior ragione accesi dopo che la CNN ha pubblicato gli ormai tristemente famosi video che testimoniano come i migranti, in Libia, vengano spesso venduti come carne umana, come veri e propri schiavi, da trafficanti di uomini senza scrupoli. Così, se pure la presidenza italiana al Consiglio si è chiusa sulla buona notizia dell’apertura a Tripoli di un centro dell’UNHCR per facilitare il trasferimenti di migliaia di migranti in Paesi terzi disponibili ad accoglierli, indubbiamente tante, troppe domande restano senza risposta. E a pochi giorni dall’inizio della presidenza giapponese, lo scorso 12 dicembre Amnesty International ha pubblicato un rapporto di durissima accusa nei confronti dei Governi europei – Italia in primis – in merito a quello stesso accordo con la Libia che il Commissario per i Diritti Umani aveva definito poche settimane prima “disumano”. Perché le ricerche condotte dalla Ong – si legge nel report – “hanno rivelato come l’Unione Europea, i suoi Stati membri – e l’Italia in particolare – abbiano raggiunto il loro obiettivo di mettere un freno al flusso di rifugiati e migranti attraverso il Mediterraneo, con poca considerazione delle conseguenze per coloro che, come risultato di tale politica, sarebbero rimasti imprigionati in Libia”. Su questa linea, Amnesty ha dunque definito tali politiche migratorie europee e italiane “inaccettabili”, e addirittura “illegali” sulla base del diritto internazionale.
Sull'”illegalità” di tale politiche, in effetti, si era già indirettamente espresso proprio Guterres, il quale, lo scorso giugno, in occasione di una conferenza stampa sull’argomento, aveva osservato l’assoluta necessità che, nel rispetto dei diritti dei rifugiati, gli Stati in grado e obbligati dalla legge internazionale ad accoglierli rinunciassero a fare accordi con Stati terzi non in grado di accogliere i migranti per trattenerli nel loro territorio. E proprio a noi della Voce, aveva forse imprudentemente specificato che “sì, se l’accordo è preso con un Paese come la Libia che non è in questo momento in grado di accogliere e rispettare i diritti dei rifugiati, lo stato che chiede l’accordo non rispetta la legge internazionale”. Affermazione in seguito ridimensionata dallo staff, che aveva specificato che il Segretario non faceva diretto riferimento all’Italia. Che quel riferimento fosse presente oppure no, l’esegesi della dichiarazione di Guterres non potrebbe essere più chiara.
In questo quadro tanto complesso, pochi giorni fa il Consiglio di Sicurezza ONU ha riaffermato, adottando un “Presidential Statement”, che, a due anni dalla sua firma, l’Accordo Politico Libico resta l’unico sfondo politico e diplomatico in cui risolvere la crisi del Paese, accordo la cui implementazione rimane fondamentale per raggiungere l’obiettivo di tenere nuove elezioni e favorire la realizzazione della transizione politica. Una affermazione di fiducia netta, dunque, nei confronti dell’inviato speciale del Segretario Generale Ghassan Salamé, che davanti a quello stesso Consiglio non molte settimane fa ha presentato i significativi passi avanti nella direzione della pace.
Passi avanti, tuttavia, che non nascondono gli ostacoli, ancora enormi, da affrontare sul tema delle migrazioni, e non solo in Libia. A questo proposito, secondo l’ultima edizione dell’International Migration Report 2017 (Highlights), pubblicazione biennale curata dal Department of Economic and Social Affairs delle Nazioni Unite, sono almeno 280 milioni le persone che vivono in un Paese diverso dal proprio d’origine, numero che dal 2000 ha visto un incremento del 49%. Addirittura, oggi sono migranti internazionali il 3,4% degli abitanti del Globo. Il report stima che la migrazione internazionale abbia dato un importante contributo alla crescita demografica in tante parti del mondo, e abbia addirittura rovesciato il trend di declino demografico in alcune altre. Più di 6 migranti ogni 10 risiedono in Asia (80 milioni) o in Europa (78 milioni). Al terzo posto il Nord America (58 milioni), seguita da Africa (25 milioni), America Latina e Caraibi (9.5 milioni) e Oceania (8.4 milioni).
Numeri che fanno comprendere come sia sempre più urgente investire nella cooperazione internazionale, per mettere a punto politiche migratorie efficaci a garantire i diritti umani di così tante persone coinvolte dal fenomeno. In questo senso, il Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni William Lacy Swing, in occasione di questo International Day, si è appellato urgentemente alla comunità internazionale perché si impegni nell’assicurare condizioni di sicurezza, per quanto possibile, nelle migrazioni. “Mentre viviamo in un’epoca in cui un’élite privilegiata considera la mobilità globale un suo diritto di nascita”, ha ricordato, “tale diritto è negato a innumerevoli altre persone, intrappolate in scenari di grave difficoltà a causa delle condizioni economiche o dei conflitti in corso”. Proprio come chi, oggi, mentre scriviamo, è rinchiuso nei ben noti campi-lager libici, a subire abusi, torture, ricatti e costanti e terribili violazioni dei propri più basilari diritti umani. Violazioni di fronte alle quali, ancora oggi, la comunità internazionale fatica a fornire una risposta.
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