È un giorno importante per la presidenza italiana al Consiglio di Sicurezza Onu, un giorno atteso e annunciato da quando, a inizio mese, il rappresentante permanente alle Nazioni Unite Sebastiano Cardi introdusse la fitta agenda della leadership tricolore, presentandola subito come incentrata sull’Africa e, in particolare, sulla Libia. Perché la presenza del ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano, che ha presieduto il Consiglio in occasione dell’atteso briefing dell’inviato speciale di Antonio Guterres in Libia Ghassan Salamé, rappresenta indubbiamente un punto focale di tutta la discussione promossa dall’Italia in questi 30 giorni sulla grave crisi che si consuma ormai da sei anni a poche miglia dalle sue coste meridionali.
Una crisi che ha fatto percepire chiaramente i propri contraccolpi sul Belpaese, negli scorsi mesi ambitissima porta d’accesso all’Europa per migliaia di disperati. Quella porta, però, è stata, se non serrata definitivamente, perlomeno accostata dall’accordo che Roma ha negoziato con Tripoli ben prima dell’estate, e che, insieme al codice di condotta imposto alle Ong – che ha determinato per molte di esse l’abbandono del Mediterraneo –, ha causato un evidente calo degli sbarchi, e parallele polemiche sulle condizioni disumane in cui i migranti versano, rinchiusi a doppia mandata nell’inferno libico. Con il paradosso che, anche coloro che non avrebbero in origine avuto diritto alla protezione internazionale, una volta sottoposti agli ormai tristemente noti trattamenti degradanti, acquisiscono uno status giuridico non difforme da quello di un vero e proprio profugo.
La visita di Alfano all’ONU era doppiamente attesa, soprattutto in relazione alle ultimissime novità che hanno riguardato la crisi migratoria libica. Il 6 novembre scorso, un grave incidente ha ostacolato il recupero di una “carretta del mare” a 30 miglia nautiche da Tripoli. La ong Sea-Watch, attiva nell’operazione e in contatto con il Centro nazionale di Coordinamento e soccorso marittimo italiano, ha accusato una pattuglia della Guardia Costiera libica (istituzione, ricordiamolo, foraggiata e addestrata da Roma) di “essersi avvicinta a grande velocità, anche se non era un’imbarcazione adeguata a caricare persone già in acqua” rispetto alle altre presenti sul luogo, e di aver dunque impedito l’efficacia delle operazioni di recupero, aggravando il bilancio del naufragio. Come se non bastasse, pochi giorni fa, la CNN ha pubblicato video esclusivi che denunciano la compravendita dei migranti, schiavi dei nostri giorni, in Libia. E il 14 novembre scorso, l’Alto Commissario per i Diritti umani ONU, il principe giordano Zeid Rad al-Hussein, ha definito l’accordo stretto tra Libia e UE (sottinteso, con in prima fila l’Italia) “disumano”. D’altra parte, già lo scorso giugno il segretario Guterres aveva confermato alla Voce che il patto stretto con Tripoli, nell’eventualità in cui riguardasse anche i rifugiati, sarebbe potuto risultare una violazione del diritto internazionale. Non certo, insomma, un’atmosfera distesa e favorevole all’arrivo all’ONU del ministro degli Esteri italiano, a giudicare da cotanti precedenti.
E’ in tale quadro che si può facilmente spiegare il nervosismo serpeggiato tra gli stretti collaboratori di Alfano in occasione dello stakeout tenuto con Ghassan Salamé, al termine della riunione del Consiglio di Sicurezza: lo staff del Ministro è in effetti sembrato particolarmente solerte nel limitare le domande dei giornalisti, causando anche un imbarazzante “incidente” nel momento in cui la risposta dell’inviato Salamé alla domanda posta di Al Jazeera, nella foga di evitarne altre, è stata per sbaglio bloccata prima del tempo.

Un nervosismo altrimenti poco giustificabile, visto che la sessione del Consiglio di Sicurezza ha evidenziato una straordinaria comunità d’intenti da parte di tutti i partecipanti nel sostenere l’operato di Salamé e della missione UNSMIL a lui affidata solo due mesi fa . Missione che, stando al briefing tenuto dall’Inviato e ai commenti degli Stati membri, ha già raggiunto obiettivi importanti, sulla strada dell’accordo politico raggiunto per le nuove elezioni, rispetto al quale Salamé si è detto “piuttosto fiducioso”. In particolare, sulle elezioni, a suo avviso la questione non sarà “chi”, ma “come”: non tanto chi sarà eletto, ma le modalità in cui queste avverranno. In tal senso, si è impegnato a continuare a lavorare per garantire le precondizioni di sicurezza e legalità necessarie perché l’importante appuntamento elettorale possa avere luogo, e dare finalmente un governo univocamente riconosciuto al popolo libico. Salamé ha anche sottolineato l’importanza dell’azione costituente in corso, che dovrà fornire alla Libia una nuova Costituzione; ha annunciato la preparazione di una conferenza nazionale per il prossimo febbraio, che darà la possibilità a tutte le anime del dilaniato Paese di riunirsi e dialogare, e non ha mancato di ricordare le gravi condizioni umanitarie in cui versano le fasce più deboli popolazione, e gli stessi migranti: l’Inviato di Guterres ha in particolare parlato di un crescente numero di detenzioni, dell’“estrema violenza” a cui essi vengono sottoposti e dei tanti episodi di abusi, torture, sequestri che li riguardano. Il tutto, assicurando l’impegno dell’ONU a lavorare con le istituzioni per trovare soluzioni “innovative e sostenibili”.
Di migranti ha parlato, non alla conferenza stampa finale ma durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza, (a differenza del suo omologo libico Mohamed Taha Siala) anche il ministro Angelino Alfano, che peraltro ha tenuto a ribadire l’importanza di un decisivo controllo delle frontiere per impedire che, dopo le recenti sconfitte subite da Daesh, i foreign fighters facciano ritorno in Libia e da lì tentino la traversata verso l’Europa. Sul tema caldo degli sbarchi, Alfano ha sottolineato che “la diminuzione dei flussi migratori è incoraggiante”. “Ma non può avvenire a discapito dei diritti umani”, ha chiosato. Una dichiarazione che è parsa un’ulteriore risposta alla denuncia dell’Alto commissario al-Hussein, e quasi un tentativo di placare le polemiche. “Vogliamo migliorare le condizioni nei centri di accoglienza per migranti e rifugiati”, ha assicurato il Ministro, “e stiamo lanciando nuove richieste per progetti di Ong”, ha aggiunto. Una promessa che il titolare della Farnesina fece già in occasione della sua visita all’ONU dello scorso settembre, insieme all’Alto Commissario per i rifugiati Filippo Grandi, che alla Voce confermò come l’UNHCR fosse già in Libia, e fosse ormai pronta a intervenire sui campi di detenzione.
E in effetti, l’UNHCR in Libia c’è. E non è da sola: anche l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) è presente nel Paese. Tuttavia, il loro indiscusso impegno a difesa dei migranti e dei rifugiati non sembra ancora potersi applicare ai campi di detenzione. Nel suo ultimo report risalente al 9 novembre scorso, l’UNHCR ha stimato che almeno 18mila migranti sono prigionieri in quei “lager”. E le autorità libiche ritengono che i trafficanti detengano ancora migliaia di persone. Ma finché non saranno ristabilite le condizioni minime di sicurezza nel Paese, sarà quasi impossibile per le organizzazioni umanitarie avere accesso a campi che, in gran parte, sono sotto il controllo delle milizie o addirittura dei trafficanti. Difficile, contemporaneamente, poter sperare che il governo legittimo di Fayez al-Serraj possa intervenire direttamente sulla questione: tra i tanti a chiederlo, in primis la Francia. Un auspicio condivisibile, ma poco realistico, se si pensa allo scarso controllo territoriale che detiene attualmente il governo Serraj.
E’ vero che, dal punto di vista politico, sono stati compiuti passi importanti: lo ha sottolineato Salamé, ma anche i membri del Consiglio di Sicurezza invitati a intervenire dopo di lui. Tra questi, spiccava l’assenza dell’ambasciatrice americana Nikki Haley (nel pomeriggio invece presente alla sessione dedicata all’uso di armi chimiche in Siria), assenza che non deve aver fatto piacere alla Missione italiana, memore della fredda accoglienza già riservata in passato da Donald Trump alle istanze italiane sulla Libia. A parte questo rilievo, tutti gli Stati – dall’estremo occidente americano fino all’estremo oriente giapponese – hanno dichiarato pieno sostegno al mandato di Salamé e all’azione delle Nazioni Unite nel Paese africano. Addirittura, lo hanno fatto senza esitazione alcuna quei Paesi che più volentieri hanno interloquito con il generale Khalifa Haftar, come Russia, Francia ed Egitto. Certo: solo Stati Uniti e Urugay hanno fatto esplicito riferimento all’autorità legittima di Fayez al-Serraj, autorità che, al di là dell’ufficialità, scricchiola e non da oggi. E la dichiarazione della Francia sull’importanza di salvaguardare le risorse libiche – in particolare il petrolio, che, ha detto, dev’essere sotto la salda gestione della National Oil Company – non può non far pensare a come è iniziata la rocambolesca campagna libica occidentale del 2011, e alla parallela rincorsa a strappare contratti ai nuovi padroni dell’oro nero. Eppure, ciò che ha dominato nella riunione è stata indubbiamente la piena unità d’intenti del Consiglio: il sostegno incondizionato a Salamé, la comune e persistente preoccupazione per gli ultimi episodi di violenza, e l’unanimità piena sull’aggiornamento delle sanzioni, e sulla necessità di contrastare il traffico di armi, tema sul quale ha relazionato l’ambasciatore svedese a capo della preposta Commissione.
Ma sui migranti, e sull’annosa questione dei “campi-lager”, lo scenario di totale comunanza d’intenti ha lasciato il posto a un decisamente meno edificante “effetto scaricabarile”: il Consiglio di sicurezza pare deciso a rimandare il grosso dell’intervento umanitario al raggiungimento di una soluzione politica – obiettivo che, nonostante i progressi, è tutto fuorché a portata di mano –; gli Stati si appellano alle autorità libiche, che a loro volta si appellano all’ONU, per il ripristino di condizioni umane e dignitose nei campi di detenzione; e le organizzazioni umanitarie aspettano (per ora invano) che vengano garantiti i presupposti minimi per fare il proprio lavoro. Intanto, i giorni passano e i migranti continuano a morire. E a noi della Voce viene da chiederci – questione che avremmo voluto sottoporre al solitamente disponibile ministro Alfano, se la concitazione dei suoi collaboratori non ce lo avesse impedito – se non sarebbe stato meglio rimandare l’accordo per il controllo dei flussi migratori a un secondo momento, e impegnarsi, prima di tutto, a garantire le precondizioni di sicurezza necessarie a impedire che i migranti che noi non vogliamo o non possiamo accogliere rimangano imprigionati nell’inferno.