La Siria, si sa, è un tema particolarmente scottante per la comunità internazionale. A maggior ragione lo è per il Consiglio di Sicurezza ONU, il cui immobilismo sull’argomento è dovuto alle evidenti divisioni interne tra Stati Uniti da una parte e Russia dall’altra, frequentemente supportata dalla Cina. Divisioni ben evidenti soprattutto quando l’argomento di discussione è così caldo: e cioè il presunto uso di armi chimiche da parte del regime di Bashar al-Assad. Davanti al Consiglio di Sicurezza presieduto questo mese dell’Italia, infatti, hanno presentato le proprie relazioni Izumi Nakamitsu, Alto Rappresentante per gli Affari di Disarmo, ed Edmond Mulet, capo dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche e del Joint Investigative Mechanism (JIM) dell’ONU. Entrambi i relatori hanno portato all’attenzione del Consiglio materiale considerato piuttosto compromettente per la Repubblica Araba Siriana. Izumi ha dichiarato che solo 2 delle 27 strutture di armi chimiche in Siria devono essere ancora smantellate. Una buona notizia, dunque, ma è solo un primo passo. Perché l’Alto Rappresentante ha duramente biasimato le discrepanze e le incongruenze delle informazioni presentate dal Governo siriano, e un difficile accesso alla documentazione necessaria. Izoumi ha dunque sottolineato che l’attuazione della risoluzione ONU, da parte del regime di Damasco, è incompleta.
Ancora più scottante il briefing tenuto da Edmond Mulet, che ha illustrato dettagliatamente le conclusioni del report dedicato agli attacchi chimici del 15-16 settembre 2016 avvenuti nella provincia Umm Hawsh, e del 4 aprile 2017 a Khan Sheikhoun. L’Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche ha dunque confermato di aver trovato evidenze dell’uso di gas mostarda nel primo caso e di gas sarin nel secondo, individuando come probabili responsabili, rispettivamente, Daesh e il regime di Assad. L’uso di gas tossici, in particolare, è emerso come altamente probabile dall’analisi dei sintomi, dei trattamenti a cui le vittime sono state sottoposte e dalle testimonianze raccolte.
Ma il mandato che l’ONU ha affidato al Joint Investigation Mechanism, del quale il Consiglio di Sicurezza era chiamato a decidere l’estensione oltre al termine del 17 novembre, era anche quello di appurare la responsabilità degli attacchi. Ed è stato proprio questo il punto più delicato della sua missione. Missione che Mulet sostiene sia stata condotta con assoluta precisione, imparzialità e professionalità, utilizzando la medesima metodologia in entrambi i casi, tratteggiando 4 possibili scenari per il primo attacco, 8 per il secondo – compresi quelli tracciati dagli Stati membri –, e raccogliendo e analizzando una grande quantità di materiale, tra cui video, foto, audio, immagini satellitari e referti medici. Il leader del JIM è inoltre stato a Damasco lo scorso agosto, mentre il suo team ha visitato, oltre alla capitale, la base aerea di Al-Shayrat tra l’8 e il 10 ottobre. Non è stato invece possibile visionare i siti dove hanno avuto luogo gli incidenti, a causa di rischi legati alla sicurezza, circostanza duramente contestata dalla Russia. L’importanza di tali sopralluoghi – ha sostenuto Mulet – è tuttavia diminuita nel corso del tempo, anche per il fatto che l’integrità dei siti non è stata preservata.
E se la paternità dell’Isis del primo attacco non è stata particolare oggetto di contestazioni, diverso è il secondo caso esaminato. Sottolineando di aver ricevuto diverse informazioni dal Governo siriano, ritenute però poco affidabili, il leader del JIF ha dichiarato che, sulla base di tutte le evidenze, le tracce e le testimonianze raccolte, l’opzione più probabile è che il responsabile del disastro chimico sia l’aviazione siriana, che avrebbe perpetratoi un bombardamento a base di gas sarin. Uno degli indizi citati a sostegno della tesi, oltre ad alcuni video verificati come autentici, anche il ritrovamento, nella sostanza usata a Khan Shaykhun, di un precursore del sarin dalla struttura chimica compatibile con quello presente nell’arsenale siriano originario.
Prove pienamente accolte dai rappresentanti dei Paesi occidentali, Stati Uniti, Regno unito e Francia in primis, ma duramente contestate dalla Russia. Il suo ambasciatore presso le Nazioni Unite Vassily A. Nebenzia, infatti, dopo aver criticato l’anticipata pubblicazione, da parte del New York Times, di una nota della Missione americana sull’argomento già il 21 ottobre scorso, quando ancora il report non era pubblico – nota che preannunciava un duro scontro tra Washington e Mosca –, ha poi contraddetto la posizione occidentale punto per punto. Innanzitutto ricordando che, dopo quanto accaduto a Khan Shaykhun, gli USA hanno bombardato la base aerea di Shayrat, “violando ogni norma del diritto internazionale”, e ritenendo Damasco, ben prima del termine dell’investigazione del JIM, già responsabile.
La Missione russa all’ONU ha inoltre denunciato una sostanziale mancanza di evidenze nel report, riflessa anche nel linguaggio utilizzato: “è possibile, potrebbe, potrebbe essere”. “Non c’è alcuna evidenza di un bombardamento, e tutto quello che c’è è chiarament una fregatura”, ha tuonato l’Ambasciatore. A suo avviso, la tesi russa sarebbe confermata anche dal comportamento degli Stati occidentali, che, per non “perdere la faccia”, avrebbero cercato di estendere il mandato del JIM già lo scorso 26 ottobre, prima che il report fosse pubblicato e sebbene non fosse urgente farlo.
“Qualcuno qui si è interrogato sul senso dell’uso, da parte dell’aviazione siriana, di gas sarin? C’è qualcuno qui in grado di capire quanto insensato sarebbe stato il suo utilizzo da un punto di vista militare, quando esistono altri mezzi convenzionali e molto più efficienti di distruzione a disposizione?”, ha chiesto retoricamente l’Ambasciatore ai colleghi. Per queste ragioni, e per il fatto che la Russia si era già detta disponibile ad avallare l’estensione del mandato del JIM, ma solo a condizione che questo fosse emendato “includendo gli elementi di professionalità e imparzialità che vogliamo vedere”, Mosca ha infine posto il veto sulla risoluzione. Cristallizzando, di fatto, una impasse che dura ormai da mesi, se non da anni, e che dimostra la persistente incapacità, da parte della comunità internazionale, di fornire una risposta univoca e superare le profonde divisioni politiche nei riguardi di una crisi che, da guerra civile, si è drammaticamente trasformata in una guerra per procura, sulla pelle dei siriani.