Era lo scorso settembre quando, al termine della più densa e importante settimana della 72esima Assemblea Generale ONU (UNGA), l’ambasciatore italiano Sebastiano Cardi delineava alla Voce una roadmap precisa verso la risoluzione di uno dei più gravi e ignorati conflitti dello scacchiere internazionale, quello yemenita. Lo scioglimento della crisi in Yemen, aveva detto, “è delineato nella dichiarazione presidenziale adottata dal Consiglio di Sicurezza lo scorso 15 giugno, che l’Italia ha contribuito a scrivere e di cui ha stabilito le linee-guida di intervento”, linee “a cui tutte le parti del conflitto si devono attenere, a partire dall’obbligo di garantire un accesso sicuro, rapido e senza ostacoli agli aiuti umanitari”.
Oggi, a tre mesi di distanza da allora e mentre l’Italia è leader del Consiglio di Sicurezza, quella dichiarazione di Cardi assomiglia pericolosamente alle cosiddette “ultime parole famose”. Perché, nel frattempo, l’Arabia Saudita ha chiuso tutti i porti e gli aeroporti dello Yemen, rafforzando il blocco di alcuni porti e dello spazio aereo in cui il Paese era già stretto, e peggiorandone la gravissima emergenza umanitaria in corso per l’impossibilità di accesso dei pur indispensabili aiuti umanitari. Una mossa che deve aver rafforzato la già esistente determinazione svedese a riportare la questione yemenita sul tavolo del Consiglio di Sicurezza, con la convocazione di una riunione a porte chiuse, il cui principale obiettivo – ha spiegato l’ambasciatore Carl Skau – è stato quello di ripristinare l’accesso umanitario nel Paese.
Perché quello di cui i civili – tra i quali migliaia di bambini – stanno pagando l’altissimo prezzo, in realtà, è una intricatissima guerra per procura tra i due eterni rivali mediorientali, Arabia saudita da un lato e Iran dall’altro: la prima, che insieme agli Usa sostiene, in teoria, il governo legittimo di Abd Rabbo Mansur Hadi – il quale però, secondo le ultime notizie, sarebbe letteralmente bloccato nel Paese dalle autorità di Riad –; il secondo, schierato con i ribelli sciiti houti e duramente accusato dagli Stati Uniti di fornire loro armi.
Ma sulle sorti del conflitto yemenita, che tutto è tranne che una “guerra civile” nel senso stretto del termine, influiscono pesantemente anche le ricadute di un altro, più latente ma sempre velenoso conflitto: quello che da anni si combatte nei palazzi del potere di Riad, e che proprio nelle ultime settimane, dopo il viaggio di Donald Trump in Arabia Saudita, sembra essere giunto a un inatteso punto di svolta. Perché, pochi giorni fa, il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman ha ordinato decine di arresti di principi, ex ministri, del capo della Guardia nazionale e dei vertici dei media del Regno. Poco prima, per di più, il primo ministro libanese Saad Hariri, storico alleato dei Saud, ha annunciato le proprie dimissioni in diretta tv da Riad, sostenendo di temere che Hezbollah e Iran attentassero alla sua incolumità. Ma pochi giorni prima delle sue dimissioni, aveva incontrato l’iraniano Ali Akbar Velayati, consigliere per la politica estera della Guida suprema Ali Khamenei. Dopo il meeting, i due avevano rilasciato una dichiarazione in cui si enfatizzava la necessità di fare fronte comune alla minaccia terroristica. In Libano (e non solo), sono in pochi a credere che la sua decisione di lasciare il Governo sia stata spontanea, e c’è chi si chiede se anche lui, come il presidente yemenita Hadi, sia “prigioniero” nei palazzi di lusso di Riad come asso nella manica dei sauditi da sfoderare all’occorrenza.
Come se non bastasse, nella stessa giornata in cui Hariri si è (forse suo malgrado) dimesso, è stato dato l’annuncio che un missile balistico lanciato dalle aree settentrionali dello Yemen controllate dagli Houthi era stato intercettato e distrutto nei pressi dell’aeroporto della capitale saudita. Il (fallito) attacco è ora diventato il pretesto usato da Riad per giustificare il blocco dei porti, con il supporto degli Usa che accusano l’Iran di aver fornito la potente arma ai ribelli. E qui il cerchio si chiude, per lo meno provvisoriamente, e noi torniamo al punto da cui, poche righe più sopra, siamo partiti.
L’impressione, ad oggi, è che, le sorti del Medio Oriente e le vite di centinaia di migliaia di bambini yemeniti siano letteralmente appese a un filo, sapientemente (ma impietosamente) manovrato – con il benestare finora di Washington – dall’Arabia Saudita. Il cui giovane principe Mohammad bin Salman, in realtà, non è affatto nuovo agli azzardi, né sul piano della politica interna, né tantomeno su quello della politica estera. Dal primo punto di vista, il Principe ereditario ha progressivamente cercato di assicurare il proprio potere in previsione del passaggio ufficiale di consegne che avverrà alla morte o alle dimissioni del padre, l’attuale re Salman. A tutto ciò, si aggiunge la guida di Aramco, la maggiore compagnia petrolifera mondiale, e del comitato economico che gestirà la più ampia opera di privatizzazione che il Regno abbia mai conosciuto. In parallelo, Mohammad bin Salman starebbe cercando di limitare il potere religioso su cui si è tradizionalmente basato il patto di governo saudita. D’altra parte, le contrapposizioni interne non sono mai mancate nelle torri d’avorio dei Saud: e c’è anche chi vede un collegamento tra tale persistente braccio di ferro all’interno dei Saud e l’11 settembre, che sarebbe stato un tentativo saudita di sottrarre Riad all’influenza di Washington. Sul piano internazionale, da citare almeno il rovinoso intervento militare in Yemen – tradizionale “cortile di casa” saudita –, il tentativo (perfettamente riuscito) di spingere il Qatar a decidere tra Teheran e Riad, e il colpo di mano in Libano, che oggi potrebbe tornare al centro dei giochi.
Ma ciò che rende ancora più complicata la situazione, e che conduce all’immobilismo a cui le Nazioni Unite sono drammaticamente condannate, ormai da troppo tempo, sull’emergenza yemenita, è il sostegno garantito all’Arabia Saudita dagli Stati Uniti di Trump. Trump che, nei primi mesi della sua presidenza, ha restaurato gli antichi rapporti di stretta amicizia con Riad, raffreddatisi nel corso dell’amministrazione di Barack Obama (il quale tuttavia, è bene ricordarlo, non ha mai interrotto, nemmeno con lo scoppiare della crisi yemenita, il flusso ininterrotto di armi fruttuosamente vendute dagli Usa a Riad), a seguito del suo impegno a promuovere l’accordo sul nucleare iraniano. Ciononostante, a pochi minuti dall’inizio della riunione, l’ambasciatore francese François Delattre ha auspicato che il Consiglio di Sicurezza raggiungesse un accordo perlomeno dal punto di vista umanitario, piano che, ha fatto capire, data l’emergenza in corso dovrebbe trascendere le divisioni politiche.

Alla fine però il Consiglio di Sicurezza, come prevedibile, ha partorito un topolino. Anzi, un “formichino” di documento. Nel corso della seduta, infatti, il Consiglio di Sicurezza ha trovato l’accordo all’unanimità su un “Press Elements”, un documento ufficiale meno pesante, dal punto di vista politico e diplomatico, di un “Presidential Statement”. A leggerlo, al termine della seduta in uno stakeout con i giornalisti, il presidente Sebastiano Cardi. Un testo, frutto dell’accordo di tutti i 15 membri del Consiglio di Sicurezza, che però appare debole e nel quale non si trova alcuna condanna diretta ed esplicita alla decisione dell’Arabia Saudita di bloccare il porto di Hodeida, il principale accesso umanitario via mare in Yemen. Bloccare un porto in genere è grave, perché equivale a una dichiarazione di guerra. Farlo in Yemen, per altro, è come far piovere sul bagnato.
Nel ricordare “l’importanza del pieno rispetto del Presidential Statement del 15 giugno”, i membri del Consiglio di sicurezza però si sono solamente limitati a sottolineare la necessità di “mantenere funzionanti i porti e gli aeroporti in Yemen, incluso il porto di Hodeida (quello chiuso dai sauditi, ndr)”. Nessuna traccia della parola “blockade”, in riferimento all’ostruzione del porto di Hodeida della coalizione saudita. Nessuna “strong condemn” su questo. I membri del Consiglio invece hanno, questa volta sì, “condannato fortemente” il missile lanciato dallo Yemen, rivolto verso l’Arabia Saudita sabato 4 novembre, evidenziando come fosse “deliberatamente rivolto a un obiettivo civile” e intercettato “sopra un aeroporto internazionale”. Nei “Press Elements” si è riaffermata anche la necessità che le parti coinvolte nel conflitto tornino a sedersi attorno a un tavolo, lavorando con l’inviato speciale ONU Ismail Ould Cheikh Ahmed, con l’obiettivo di trovare una soluzione di pace duratura nell’intera regione. Ma anche questa volta, potrebbe non bastare.

Emergency Relief Coordinator (Foto Twitter: @ItalyUN_NY)
La situazione, infatti, rimane drammatica. E prima della lettura dei “Press Elements”, partoriti dal Consiglio di Sicurezza, a seduta ancora in corso, a spiegarlo con parole schiette e dirette è stato Mark Lowcock, Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator dell’ONU reduce da un viaggio in Yemen. Non è la prima volta che Lowcock esprime parole di condanna ufficiali, anche pesanti, parlando della disastrosa condizione in cui è costretta a vivere la popolazione yemenita. Ma ribadirle alla stampa, in uno stakeout direttamente dal Palazzo di Vetro, ripreso dalle telecamere ONU, ha un peso maggiore.
Il britannico Lowcock, pur non avendo il potere effettivo di cambiare la situazione in Yemen o di prendere decisioni che possano cambiarla, ha usato parole taglienti. Ai giornalisti ha parlato della “più grave carestia che il mondo abbia mai visto per decenni, con milioni di vittime” se non verranno riaperti i porti. E, al contrario dei membri del Consiglio di Sicurezza, non ha esitato ad utilizzare la parola “blockade”, dicendo che “quello di cui abbiamo bisogno è un abbattimento del blocco (del porto di Hodeida, ndr)”, perché “solo così potremo salvare le vite di quelle persone”. Poi, nel ricordare che in Yemen “bambini muoiono ogni secondo” e dopo aver raccontato di aver visto, nel suo recente viaggio, “una bambina di 9 anni che pesava quanto una di 2”, ha riassunto in una manciata di punti quanto da lui espresso al Consiglio di Sicurezza. Tre i principali: uno stop immediato al conflitto, un accordo che permetta di fermare le bombe sulla testa dei civili e sulle strutture sanitarie in Yemen, un accordo per garantire in modo permanente l’accesso agli aiuti umanitari. Tre aspetti che gli yemeniti, stremati, chiedono alla comunità internazionale da due anni e mezzo. Tre richieste che però, le grandi potenze del mondo intente a giocare a scacchi sulla pelle dei civili, continuano a fingere di non ascoltare.
UPDATE
Statement by UNICEF Executive Director Anthony Lake on the situation in Yemen
NEW YORK, 9 November 2017 –“Yesterday, Mark Lowcock, UN Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator, called on all parties to the conflict to provide safe, rapid, unhindered humanitarian access to people in need, through all ports and airports, including Hudaydah port and Sana’a airport.
“The recent closure of all ports and airports is making an already catastrophic situation even worse.
“Today, nearly 400,000 children in Yemen are at risk of death from severe acute malnutrition. To potentially add tens of thousands more children to this toll – tens of thousands more personal catastrophes for children and grieving parents – is simply inhuman.
“Children are not responsible for the conflict and carnage created by the adults. But they are the first victims.
“We must ask all the parties: What kind of Yemen do the ultimate victors expect to gain as they destroy it?”