Circa 70mila membri in 70 Paesi e un impegno costante alla ricerca della pace. Quando nel 1992 arrivò la notizia degli accordi di pace trovati in Mozambico, che fino a qualche mese prima sembravano nuovamente irraggiungibili, giornalisti e media rimasero sorpresi chiedendosi grazie al lavoro di chi quegli accordi fossero stati possibili. La risposta arrivò da Roma, attraverso il lavoro di basso profilo ma di grande sostanza, portato avanti dalla Comunità di Sant’Egidio.
Sono passati quasi 25 anni da quella firma per la pace in Mozambico, datata 4 ottobre 1992. E venerdì 9 giugno presso la sede della Missione Italiana a New York, “la piccola ONU” – come viene definita la Comunità da allora – ha siglato un accordo di collaborazione con “i fratelli maggiori” di New York. Una “lettera d’intesa” firmata dal presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo e dal sottosegretario per gli affari politici dell’ONU Jeffrey Feltman, alla presenza dell’ambasciatore italiano all’ONU Sebastiano Cardi e della direttrice della Policy and Mediation Division ONU Teresa Whitfield. Un’alleanza strategica con l’obiettivo di favorire la pace nelle zone più a rischio del mondo, che conferma il ruolo riconosciuto alla Ong italiana dalla comunità internazionale. Dopo la conferenza stampa, il presidente di Sant’Egidio ci ha concesso questa intervista.
Presidente Impagliazzo, che significato ha questo accordo?
“Si tratta di un riconoscimento ufficiale delle Nazioni Unite a compimento di un lavoro comune fatto con grande sinergia e cooperazione. La pace in Mozambico, per noi, raggiunta nell’ottobre di 25 anni fa, ha rappresentato un punto di partenza fondamentale: abbiamo dimostrato che la comunità cristiana poteva incanalare la propria energia di pace, mettendola a servizio della comunità internazionale per risolvere situazioni di crisi”.
Oltre al Mozambico, quali sono stati i successi diplomatici più importanti della Ong?
“Ne abbiamo collezionati tanti, in varie parti dell’Africa: le transazioni pacifiche del Niger, o quelle politiche della nuova Guinea. Ma non solo, un altro esempio che mi viene in mente è il rilancio delle trattative di pace in Guatemala, quando tutto era fermo: è avvenuto grazie alla Comunità di Sant’Egidio, e l’ONU seppe prendere in mano il dossier per istituzionalizzare l’accordo”.
Quali sono adesso, invece, le situazioni più complesse dove siete coinvolti?
“I dossier, di cui riferiremo al Consiglio di Sicurezza lunedì 12 giugno, sono principalmente tre. Il Sud Sudan, dove la guerra etnica impera da tempo, provocando pesanti flussi migratori di profughi e rifugiati. La Repubblica Centrafricana, dove l’operato del presidente eletto democraticamente è fortemente ostacolato da 14 gruppi etnici e militari che non lo riconoscono e che stanno combattendo tra loro. La Libia, una situazione decisiva anche per i destini dell’Italia”.
Tra questi, qual è la situazione in cui si sente più ottimista e quali meno?
“Sul Centrafrica siamo abbastanza ottimisti e in una fase più avanzata. Si tratta di una situazione complessa perché coinvolge più attori impegnati sul campo di battaglia e questo rende il tutto difficile, ma credo che il lavoro fatto negli ultimi anni stia finalmente dando i suoi frutti”.
E gli altri due dossier?
“Sono più complessi. Sul Sud Sudan siamo diventati operativi da poco e ci vorrà del tempo, anche se abbiamo fatto dei passi importanti a Roma nelle ultime settimane. Invece la situazione in Libia è tortuosa, perché coinvolge tante potenze internazionali: sarà però possibile agire su piccoli accordi regionali, per permettere una situazione più vivibile alle comunità che vivono in quelle aree”.

Il sottosegretario dell’ONU Jeffrey Feltman ha appena dichiarato che voi avete il curriculum vitae adatto per sostenere le Nazioni Unite nel cercare accordi di pace. Ma qual è il vostro segreto? Come riuscite a far parlare delle parti che spesso rifiutano per anni di entrare in contatto?
“Credo che il nostro merito, con tutta la modestia di questo discorso, possa essere triplice. Innanzitutto abbiamo dimostrato e sviluppato una grande sapienza umana, perché come diceva papa Paolo VI bisogna essere esperti di umanità per far parlare le persone le une con le altre. Poi, la riservatezza: se le parti non vogliono comunicare di essersi incontrate, noi rispettiamo questo volere per il bene delle trattative”.
E il terzo?
“L’indipendenza. Agiamo in nome dell’umanità, non per avere interessi politici o economici, e questo ci permette di presentarci anche agli occhi di gruppi non riconosciuti dalla comunità internazionale ma protagonisti di un conflitto, con più credenziali”.
Che rapporto c’è con il Vaticano? Vi è capitato di utilizzare i loro canali diplomatici?
“Ci sentiamo ovviamente legati alla Santa Sede da un punto di vista spirituale e di appartenenza alla comunità cristiana cattolica. E certo, la nostra prima casa è Roma, una città che sta assumendo un ruolo evocativo per chi vuole trovare un accordo di pace attraverso la nostra mediazione. Ma su questo campo abbiamo totale autonomia né mai ci siamo serviti di canali diplomatici del Vaticano. Sono due vie complementari”.