Appena nominata dal presidente Donald Trump, Nikki Haley, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, non ha lasciato dubbi su quale sarà la politica che il suo paese intende portare avanti nei prossimi anni. Sotto tutti i punti di vista: dei diritti umani (gli USA hanno minacciato di ritirarsi dal Consiglio di Sicurezza dei diritti umani a Ginevra), delle politiche internazionali, ma soprattutto per quanto riguarda la lotta ai cambiamenti climatici. Recentemente Haley, neo presidente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha risposto così durante una conferenza stampa al Palazzo di Vetro. “Per ciò che riguarda i cambiamenti climatici, il focus di questa amministrazione è che non si vuole fare qualcosa che possa nuocere alle nostre imprese. Noi pensiamo che si possa stare in equilibrio nella sottile linea tra il proteggere l’ambiente mentre si cerchi di continuare a creare una forte economia che consenta alle aziende di funzionare e pensiamo che questo equilibrio possa essere raggiunto. Penso che quello che si è visto con il presidente e quello che ha fatto, era perché lui sentiva che la precedente amministrazione fosse andata troppo in là con le norme e che fosse andata troppo lontano con quello che stavano facendo contro le imprese. Il presidente Trump ora sta solo cercando di riportare a questo equilibrio”.

Dichiarazioni chiare che sono state confermate dei risultati pubblicati nel rapporto Reneables Global Futures Report del REN21, Renewable Energy Policy Network for the 21st Century, che unisce organizzazioni internazionali, associazioni di categoria, ricercatori e alcune agenzie delle Nazioni Unite, tra cui il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ( UNDP ) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (UNIDO).
Al contrario di quanto sta avvenendo in altre zone del pianeta, in Africa, in Giappone e soprattutto negli Stati Uniti d’America sono ancora molti i fattori che impediscono e ritardano il raggiungimento degli obiettivi fissati per il 2050 di utilizzare esclusivamente fonti energetiche rinnovabili. Su questo ritardo hanno influito certamente molti fattori come il calo del prezzo del petrolio dei paesi OPEC, ma anche le politiche del neo eletto presidente Trump che alla salvaguardia dell’ambiente ha preferito la crescita industriale.
In altri paesi o aree invece questi obiettivi appaiono non impossibili. In India, ad esempio, dove circa la metà degli esperti ha detto che è un traguardo raggiungibile. O in Australia dove il 70% degli esperti pensa che riuscire soddisfare tutti i fabbisogni energetici da fonti rinnovabili non solo è auspicabile ma realistico. Un risultato di cui l’Europa dovrebbe essere orgogliosa.
Questo risultato “ha lo scopo di stimolare la discussione e il dibattito su entrambe le opportunità e le sfide di raggiungimento di un 100 per cento futuro di energia da fonti rinnovabili entro la metà del secolo”, ha detto Christine Lins, Segretario esecutivo della (REN21).
Diversa la situazione dell’Europa dove, a fronte di un giudizio assolutamente positivo da parte degli esperti del REN21 sul ricorso a fonti energetiche sostenibili, permangono forti dubbi sul modo di far rispettare i limiti delle emissioni di CO2. Mentre hanno destato scandalo le dichiarazioni dell’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, nessuno in Europa ha avuto niente da ridire sulla riforma del regolamento per gli “scambi di quote di emissioni” approvato solo poche settimane (il 28 Febbraio 2017), dal Consiglio UE dei ministri dell’Ambiente.
Le prime linee guida su questi “scambi” risalgono a molti anni fa, al 2003. Poco dopo la stipula del protocollo di Kyoto, l’Unione europea lanciò l’European Union Emissions Trading Scheme – EU ETS (Direttiva 2003/87/CE). La norma introduceva il meccanismo di “cap&trade ” per alcuni insediamenti industriali, per il settore della produzione di energia elettrica e termica e per gli operatori aerei. Dal momento che gli accordi internazionali sottoscritti che prevedevano la riduzione delle emissioni di gas serra o di CO2, avrebbero potuto avere ripercussioni sull’economia di molti paesi dell’UE, ad alcune industrie veniva concesso di continuare ad inquinare ben al di sopra di questi limiti, a patto, però, che altre industrie o altri paesi si impegnassero di rimanere al di sotto dei limiti loro consentiti.
Il “Sistema europeo di scambio di quote di emissione” prevede la concessione (a titolo gratuito) alle industrie di alcune “quote” di emissioni definite in base a parametri di riferimento (benchmark) da parte dell’UE. I tetti massimi (“cap”) di emissioni consentiti a tutti i soggetti sono vincolati dal sistema comunitario, ma possono essere superati acquistando sul mercato (da cui il termine “trade”) diritti di emissione di CO2 (“quote”) entro un limite stabilito.
In questo modo, i limiti di emissioni di CO2 sono diventati merce di scambio come il petrolio o l’energia. L’impatto di questi accordi sull’ambiente è enorme dato che interessa migliaia di imprese (11mila gestori di impianti termoelettrici e industriali, imprese manifatturiere e poi attività energetiche, produzione e trasformazione dei metalli, cemento, ceramica e laterizi, vetro, carta e gli operatori aerei). Nel 2013 a questi settori produttivi ne sono stati aggiunti altri (produzione di alluminio, calce viva, acido nitrico, acido adipico, idrogeno, carbonato e bicarbonato di sodio e gli impianti per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio di CO2). In Italia, la misura riguardava oltre 1.300 gli impianti, di cui il 71% circa nel settore manifatturiero.
Oggi, i maggiori responsabili delle emissioni in Europa possono comprare (e vendere) concessioni di emissioni di carbonio virtuale. Gli scambi di questo “mercato” virtuale sono contabilizzati nel Registro unico dell’Unione europea, una banca dati in formato elettronico che conserva traccia di tutti i passaggi di proprietà delle quote e consente agli operatori di compensare, annualmente, le proprie emissioni restituendo le quote agli Stati membri.
La giustificazione addotta dalle autorità è che, senza il ricorso a questo stratagemma, molte industrie sarebbero costrette a delocalizzarsi a causa dei costi del carbonio (carbon leakage). Il rovescio della medaglia, però, è che le conseguenze per l’ambiente sono enormi: in pratica, si consente alle imprese più inquinanti di continuare ad esserlo a patto che paghino. Un modus operandi assolutamente inaccettabile!
Prima di tutto sotto il profilo ambientale e sociale (in questo modo si permette a molti dei maggiori responsabili dell’inquinamento di un territorio di continuare a farlo, incuranti delle conseguenze sulla salute delle persone). Ma anche dal punto di vista ideologico e geopolitico: il fatto che questi “scambi” di quote di emissioni di CO2 siano contabilizzate nel Registro unico dell’Unione europea, rende l’Ue (che gestisce questa banca dati informatica) responsabile dello sforamento dei livelli di inquinamento in molte aree e delle pesanti conseguenze per la salute dei cittadini che ne derivano.
A peggiorare la situazione il fatto che, nei giorni scorsi, i ministri dell’Ambiente dei paesi dell’UE hanno approvato una modifica dell’accordo che prevede la revisione del sistema di assegnazione gratuita basata sui settori che presentano il maggiore rischio di trasferimento della produzione al di fuori dell’UE (circa 50 settori), un accantonamento di un numero significativo di quote gratuite regole più flessibili e, soprattutto, un aggiornamento dei 52 parametri di riferimento utilizzati per misurare la prestazione in materia di emissioni.
L’unica modifica positiva è la riduzione delle emissioni, non più del 40% rispetto al 2005, ma del 43%: per questo, a partire dal 2021, le quote di emissione in vendita diminuiranno con una progressione maggiore rispetto a prima (del 2,2% annuo invece che dell’1,74%).
In attesa che le previsioni degli esperti della REN21 possano tramutarsi in realtà, a pagare per il mancato rispetto dei limiti delle emissioni di CO2 saranno i cittadini europei. E non solo in termini di salute: giusto per far capire a cosa serve davvero l’UE, tra il 2021 e il 2030 verranno “regalate” alle imprese circa 6,3 miliardi di “quote”, per un valore pari a 160 miliardi di euro. A queste quote, che serviranno per consentire alle imprese di continuare ad inquinare, si aggiungerà l’istituzione di vari meccanismi di sostegno tra i quali due nuovi fondi: il fondo per l’innovazione (a favore di tecnologie innovative e innovazioni industriali pionieristiche) e il fondo per la modernizzazione (per la modernizzazione del settore energetico e dei sistemi energetici rivolto ai 10 Stati membri a reddito più basso).
Tutti soldi che gli europei dovranno sborsare per permettere alle grandi industrie di non rispettare i limiti sulle emissioni di CO2 e di continuare a inquinare ora.
A poco servirà come consolazione sapere che, in Europa, il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili e il conseguente abbattimento delle emissioni di CO2 è “fattibile”.
Resta solo da capire cosa sia più grave: se fare come gli USA, che hanno dichiarato apertamente che faranno di tutto per favorire le proprie imprese, anche a costo di arrecare ulteriori danni all’ambiente. O se, invece, sia meglio fare come nell’Unione Europea, dove alle imprese più inquinanti sono state regalate delle quote ma dove (con il trade) si è anche istituzionalizzato il diritto ad inquinare più del consentito. A patto di essere disposti a pagare….