Il 20 marzo è la Giornata mondiale della Felicità. La disputa su cosa si debba intendere con questo termine risale a molti anni fa. Nel 1968, fu Robert Kennedy in un discorso all’università del Kansas, a cercare di fornire una definizione, nello stesso discorso in cui bocciò il Pil (il Prodotto Interno Lordo) come parametro macroeconomico: “Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico”.
Nel 2012, Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite a istituire la Giornata mondiale della Felicità con una risoluzione che aveva come obiettivo richiamare l’attenzione sul fatto che “la felicità e il benessere non rappresentano solamente delle aspirazioni universali, ma anche degli obiettivi che devono essere perseguiti dai decisori politici”.
Ban Ki-moon richiamò l’attenzione sul fatto che “il benessere sociale, economico e ambientale come beni indissociabili. Capaci, insieme, di definire il concetto di ‘Felicità lorda mondiale’”. Più di recente (giugno 2016) anche l’OCSE ha cercato di “ridefinire le performance la crescita del benessere delle persone e metterla al centro degli sforzi dei governi”,definendo cosa debba intendersi per “felicità”.
Gli esperti indipendenti incaricati dalle NU hanno stilato una classifica degli stati più felici sulla base di alcuni parametri: il reddito, la speranza di vita in buona salute, avere qualcuno su cui contare nei momenti di difficoltà, la generosità, la libertà e fiducia – quest’ultima misurata l’assenza di corruzione nel mondo degli affari e del governo. La relazione di quest’anno sottolinea l’importanza delle basi sociali della felicità.
A fare la differenza di felicità sono fattori difficili da quantificare come “avere qualcuno su cui contare”, la “generosità”, il “senso di libertà” e la “libertà dalla corruzione”. L’altra metà della felicità, secondo i ricercatori, deriverebbe dal Pil pro capite e dalla speranza di vita in buona salute, che dipendono entrambi, come spiega il rapporto, anche dal contesto sociale.
Non bisogna dimenticare che oltre alle differenze tra i vari paesi del mondo, esistono grosse varianze (scostamenti dai valori medi) all’interno di ogni stato: nei paesi più ricchi queste differenze interne sono dovute principalmente a variazioni di salute mentale e fisica e ai rapporti personali. Al contrario, nei paesi più poveri, sono le differenze di reddito a contare di più (ma non solo).
Un fattore rilevante per la felicità è anche il lavoro: dove è alto il tasso di disoccupazione, la felicità è bassa; anche la qualità del lavoro può causare grandi “variazioni di felicità”.
È sulla base di questi parametri che i ricercatori hanno stilato una graduatoria dei paesi più felici. E, come sempre, i posti migliori della classifica sono stati appannaggio dei paesi del Nord Europa. Solo il vertice della classifica, fino allo scorso anno occupato dalla Danimarca, nel 2017, è passato alla Norvegia, “il paese più felice al mondo”.
Al di là di questo cambiamento, lo scarto tra i primi posti della classifica non è poi così rilevante: oltre alla Norvegia (prima con 7.537 punti), ci sono la Danimarca (con 7.522), l’Islanda (con 7.504) e la Finlandia (con 7.469). Unico paese non scandinavo ai vertici la Svizzera, al quarto posto, con 7.494 punti. “Solo” settima la Svezia.
Gli Stati Uniti d’America si sono piazzati al 14esimo posto ma con un punteggio ben più basso rispetto al passato: 6.993. Sorprendente anche il risultato dell’Irlanda, primo paese Ue non scandinavo, che ha conquistato il 15esimo posto, davanti a paesi molto più blasonati (almeno sulla carta) come la Germania, solo 16esima, il Belgio, il Lussemburgo e il Regno Unito.
A destare meraviglia è stata anche la performance di paesi come il Costa Rica, 12esimo, il Cile, 20esimo, e soprattutto il Brasile che nonostante la crisi economica che sta attraversando e i numerosi problemi ambientali e sociali ha ottenuto il 22esimo posto.
Molto indietro in questa classifica, ma questo, al contrario dei risultati precedenti, non sorprende affatto, è l’Italia: solo 48esima con 5.964 punti, lontana anni luce dai paesi felici di essere “i più felici”. Anzi, a ben guardare, sembrerebbe che il Bel Paese si sia salvato solo grazie a tre dei sei parametri: il reddito medio pro capite, gli aiuti sociali e “distopia”.
Peggio dell’Italia, tra i paesi sviluppati, solo il Giappone, 53esimo.
In fondo alla classifica Sud Sudan, Liberia, Guinea, Togo, Rwanda, Tanzania, Burundi e la Repubblica Centro Africana. Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che i progetti e gli aiuti concessi ai paesi più poveri non sono serviti affatto a migliorare la qualità della vita dei loro abitanti ma solo a rimpinguare le casse delle imprese (provenienti da altri paesi) che si aggiudicano appalti milionari.
I miglioramenti più rilevanti rispetto al passato sono stati ottenuti da paesi come il Nicaragua (salito di oltre 1.300 punti), la Lituania (di ben 1.162) e poi Sierra Leone, Ecuador, Moldovia e molti altri: tutti paesi che, grazie ad una corretta gestione della “cosa comune”, hanno migliorato in modo significativo la propria performance.
Al contrario, altri paesi hanno perso molte posizioni. Primi fra tutti gli Stati Uniti dove il livello di felicità sembra essere in caduta libera rispetto al 2007, quando era al terzo posto. Un calo che potrebbe essere dovuto alla riduzione del sostegno sociale e alla corruzione in aumento.
Una riduzione significativa del livello di felicità (rispetto al 2007) è stato registrato anche dalla Grecia (ben 1.000 punti): cosa che non sorprende dato che le promesse del governo Tsipras di risanare l’economia del paese non sono state mantenute. Stessa cosa per l’Italia, che negli ultimi anni ha visto calare il proprio rating in modo rilevante (749 punti). In assoluto la peggiore performance dopo la Grecia tra i paesi Ue.
Ciò che sorprende è il livello di felicità della Cina: nonostante il boom economico inarrestabile, secondo i ricercatori, i cinesi non sono più felici di 25 anni fa: segno forse che i soldi (di pochi) non fanno la felicità (di tutti). Se da un lato è vero che negli ultimi 25 anni il reddito pro capite in Cina è cresciuto è anche vero che cominciano a manifestarsi problemi sociali che influenzano la felicità, come la disoccupazione e il calo degli ammortizzatori sociali.
Oggi il livello di felicità dei cinesi non va oltre il 79esimo posto. Un risultato di cui i leader cinesi non possono certo essere “felici”.