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September 29, 2016
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Rifugiati: dall’HIAS, l’azione con 135 anni di esperienza

Il direttore dell'HIAS Mark Hetfield spiega quali sono le aspettative sui rifugiati dopo i Summit dell'ONU

Gianna PontecorbolibyGianna Pontecorboli
HIAS

I partecipanti al Leaders' Summit on Refugees organizzato dal presidente americano Barack Obama all'ONU il 20 settembre

Time: 4 mins read

“HIAS è la più vecchia agenzia per i rifugiati del mondo” dice con orgoglio Mark Hetfield, che dell’agenzia è presidente e direttore generale.

In un momento in cui il dramma dei rifugiati è al centro dell’attenzione internazionale, Hetfield ha una storia speciale da raccontare, e soprattutto una storia su cui riflettere.

‘’Siamo nati a New York nel 1881 — racconta — soprattutto per aiutare gli ebrei che fuggivano dai pogrom della Russia zarista. E abbiamo continuato da allora, focalizzandoci sull’assistenza ai rifugiati durante il periodo delle emigrazioni ebraiche di massa dall’Est Europeo agli Stati Uniti alla fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, fino agli anni che hanno preceduto e seguito la Seconda Guerra Mondiale, le migrazioni di massa dopo la creazione dello stato di Israele, la fuga degli ebrei dall’Ungheria nel 1956 e da Cuba nel 1959, e il massiccio reinsediamento degli ebrei provenienti dall’Unione Sovietica dal 1970 fino al 2000”.

Con un’esperienza centenaria alle spalle, adesso, la HIAS si è trasformata per far fronte alle nuove necessità ed è diventata una grossa organizzazione che opera in una dozzina di paesi per aiutare il reinsediamento dei rifugiati di ogni colore e religione, in collaborazione con il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della salute e dei servizi umani americani e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNCHR). “Lo facciamo grazie alle lezioni che abbiamo imparato nei 135 anni in cui abbiamo fatto questo lavoro”, dice il presidente dell’organizzazione.

Al summit dell’ONU e a quello organizzato martedì 20 settembre da Obama, la HIAS è arrivata con le idee chiare e con un misto di speranze e di apprensioni.

‘’Nella storia della HIAS ci sono state di base due fasi — spiega Hetfield — una prima del 1951, quando non c’era la Convenzione sui Rifugiati, non c’era diritto di fuggire, non c’era protezione; e poi la seconda dopo il 1951, quando finalmente abbiamo avuto una piattaforma legale da usare per proteggere chi fugge. Adesso, il numero dei rifugiati e di chi ha dovuto lasciare le proprie case è arrivato a 65 milioni e la Convenzione sui Rifugiati non basta più. Per ragioni geografiche, il compito di proteggere i rifugiati ricade soprattutto sui paesi di prima accoglienza. E la comunità internazionale, Stati Uniti compresi, non ha fatto abbastanza per aiutarli a trovare una soluzione ai loro problemi’’.

Il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon ha chiesto alla comunità internazionale di accogliere ogni anno il 10 per cento dei rifugiati. Fino ad ora, si sa, soltanto l’1 per cento di loro trova una soluzione permanente e i paesi disposti ad accoglierli si contano sulle dita delle mani: oltre agli Stati Uniti, la Germania, il Canada, l’Australia, i paesi nordici e recentemente il Brasile, ci sono pochi altri.

Mark Hetfield
Mark Hetfield, direttore HIAS

Per Hetfield, che ha cominciato la sua carriera nel centro di accoglienza per gli ebrei russi a Ostia, si tratta di una risposta brutalmente inadeguata. ‘’Per 120 anni, ci siamo concentrati sui rifugiati ebrei. Dopo la creazione dello stato di Israele, però, gli ebrei dovuto scegliere se andare in Israele o in altro paese. Adesso, ben pochi dei rifugiati che assistiamo hanno questa scelta, non hanno un posto in cui andare. Quelli che vengono accolti negli Stati Uniti li possiamo aiutare a trovare casa, a iscrivere i figli a scuola, a imparare l’inglese e a trovare un lavoro. Negli altri paesi in cui operiamo, dove non c’è l’opzione di ristabilirsi, non possiamo fare altro che occuparci soprattutto di proteggerli dove sono e, se è possibile, aiutarli a costruire una comunità”.

L’attenzione della comunità internazionale, ora, potrebbe servire a migliorare le cose. I risultati però sono ancora molto incerti.

“In un certo senso siamo eccitati dai due Summit.  Nei 135 anni della nostra esistenza non c’è mai stato niente di simile, i capi di Stato che si riuniscono per discutere di questo dramma. Speriamo che abbiano successo, che riescano a creare un nuovo approccio per risolvere il problema in maniera umana e in modo che non diventi sempre peggio. Bisogna rendersi conto che i rifugiati continueranno ad arrivare, sia che ci sia un processo ordinato per accoglierli e proteggerli, sia che non ci sia. Purtroppo, fino ad ora non siamo sicuri su quale sarà il risultato. Speriamo che gli stati si ricordino perché è stata creata la Convenzione sui Rifugiati. Già allora, volevamo essere sicuri che nessuno finisse intrappolato dietro un muro di carte burocratiche o dietro una vera e propria barriera fisica.’’

Già negli anni lontani dell’emigrazione degli ebrei in fuga dalla brutalità dei cosacchi le esigenze di fondo di chi cercava di trovare una nuova casa e una nuova patria erano poche e chiare. Adesso, queste non sono affatto cambiate per chi fugge dalla guerra civile in Siria, o dalla violenza dei narcotrafficanti in Colombia.

“Quello che chiediamo agli Stati è di riaffermare tre principi di base — dice Hetfield — il primo è che ogni rifugiato deve trovare asilo in caso di persecuzione. Questo principio è garantito dalla Convenzione sui Rifugiati. Il fatto è che gli stati, con gli anni, hanno reso sempre più difficile per chi arriva avere questa protezione. Il secondo principio è che ogni rifugiato dovrebbe avere l’opportunità di trovare una soluzione durevole, di potersi sentire sicuro e benvenuto, sentirsi a casa senza dover aspettare anni e anni per una soluzione duratura. Adesso, ci vogliono in media 17 anni prima di trovarla. Il terzo principio, infine, è che tutti devono avere gli stessi diritti umani e i rifugiati non devono essere trattati come persone di seconda classe. Questa è una crisi straordinaria che richiede risposte straordinarie, ma finora non abbiamo visto nient’altro che qualche piccolo passo in più di fronte alla peggiore crisi di rifugiati degli ultimi settant’anni”.

Detto da qualcuno che ne sa qualcosa e fa il possibile per fare la sua parte…

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Gianna Pontecorboli

Gianna Pontecorboli

Genovese,laureata in storia economica, Gianna Pontecorboli ha una lunga carriera di corrispondente dagli Stati Uniti. Attualmente lavora per Il Corriere del Ticino e Lettera 22

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