Senza soverchie illusioni, pessimo viatico nelle relazioni internazionali, si assiste da qualche settimana a millesimali spostamenti di crisi, già considerate inestinguibili, verso un qualche straccio di soluzione. E’ vero che nel frattempo si è riaperta la mai ben suturata ferita del Nagorno Karabah tra Armenia e Azerbaigian e che da Pyongyang continuano le minacce nucleari non solo verbali, ma risulta riscuotere ben altro effetto sul sistema internazionale quello che sta iniziando ad accadere in Siria, in Libia e, forse, nella Repubblica centroafricana e Burundi, per qualche esempio in due differenti scacchieri.
Va inoltre aggiunto il messaggio di dialogo che, nei mesi scorsi si è irradiato da Iran e Cuba, rientrati, dopo lunghi decenni di isolamento, nel gioco della politica globale.
E’ interessante notare che, in ciascuna delle citate situazioni, il ruolo del sistema internazionale e segnatamente della sua espressione universale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, è risultato in qualche modo presente e partecipe. Si è confermato che dove non può arrivare l’azione delle potenze, regionali o globali, può soccorrere l’azione onusiana.
Dell’ONU, si può e si deve dire tutto il male possibile. Salvo poi riconoscere che, in quanto camera di compensazione degli interessi conflittuali degli stati, e sostegno dei paesi troppo disastrati per potersi risollevare da soli, risulta insostituibile.
Certo che nella soluzione delle crisi a contare sono soprattutto le potenze, in particolare quelle che siedono permanentemente nel Consiglio di sicurezza. Si chiamano “potenze” perché “possono”, e quindi facciano pure la loro parte. Il fatto è che le potenze sono spesso chiamate a spegnere i conflitti che esse stesse hanno attizzato. Vendono le armi ai contendenti, forniscono consiglieri militari sul campo, istruiscono le forze armate in lotta, garantiscono santuari e incolumità ai leader in lizza, sostengono ciascuna le parti in causa, amiche alleate o complici, con intelligence e azioni coperte. E poi, certo, quando ritengono che sia arrivato il momento per farlo, pacificano.
Ma non saranno mai le potenze a compiere le azioni di mantenimento o rafforzamento della pace, di formazione delle nuove leadership, di sostegno alla ripresa economica nei teatri disastrati da conflitti e guerre. Per la semplice ragione che sono “di parte”, mentre per ricostruire ciò che si è frantumato, occorre un soggetto riconoscibile come imparziale e supra partes. Ed è qui entra in gioco il bisogno strutturale del soggetto universale, che risponda ai suoi statuti e alla sua tradizione, non al volere di questa o quella potenza.
Detto in altro modo l’ONU non va mai avversato in linea di principio: va invece (oggi) riformato anche in modo pesante, e ripensato in quanto soggetto politico capace di scelte politiche attive, attraverso la riconfigurazione inclusiva del Consiglio di sicurezza e una figura di Segretario generale meno sbiadita di quella che il convento da troppi anni ci sta passando.
Attualmente le Nazioni Unite hanno sul terreno ben sedici missioni di mantenimento della pace: nove in Africa, una rispettivamente in Asia e centro America, due in Europa, tre in Medio Oriente. Le due più antiche risalgono a quasi settant’anni fa: in Medio Oriente (1948) per badare all’osservanza della tregua seguita al conflitto scatenato dagli arabi contro il neonato stato d’Israele, nel Kashmir (1949) per tener d’occhio i movimenti di India e Pakistan. La più vicina è del 2014 e provvede alla stabilizzazione della Repubblica Centroafricana.
Un personale complessivo di 128.000 persone, espresso da più di 122 paesi, opera in quasi 40 operazioni di pace. C’è poi l’opera routinaria e quotidiana in favore della pacificazione dei suoi mediatori e diplomatici. E’ un lavoro né facile né semplice.
Si prenda il confronto sul Nagorno-Karabakh che sta impegnando da quasi un secolo Armenia e Azerbaigian, prima repubbliche sovietiche poi stati indipendenti. L’enclave armena è in territorio azero per volontà di Stalin, ma è evidente che farebbe volentieri le valigie per tornare nella madrepatria che, tra l’altro, è paese a maggioranza cristiana diversamente dall’islamico Azerbaigian. Al tempo stesso l’enclave, dal 1923, è riconosciuta internazionalmente come parte costitutiva del territorio dello stato azero. Due principi fondamentali della pratica onusiana, quello di autodeterminazione e quello di integrità territoriale sono in evidente contrasto eppure vanno in qualche modo armonizzati per evitare lo spargimento di sangue che ancora negli scorsi giorni ha colpito i due paesi.
Qualcosa di simile si presenta all’orizzonte della questione Libia, dove il palazzo di vetro è esplicitamente implicato. Sinora l’azzardo del primo ministro del governo di intesa nazionale designato dall’ONU, Fayez al-Sarraj, rientrato sotto protezione armata, sta funzionando. Sembrano allontanate le minacce venute dai signori della guerra tribale che, tra l’altro, hanno costretto al-Sarraj a rinunciare al volo aereo forzandolo all’arrivo via mare. Ma vi è consapevolezza che, nella fase del trasferimento dei poteri, o più in là davanti ad insuccessi nella sfida della costruzione ex novo dello stato e dell’economia, si potrà porre la questione del conflitto tra autodeterminazione (su base tribale e clanica in questo caso) e integrità territoriale. Se e quando accadesse, bisognerà vedere se i tanti poteri tribali vorranno, o non, privarsi delle loro disponibilità di armati per cederle allo stato unitario e ai suoi costituendi poteri costituzionali.
L’inviato speciale dell’ONU, Martin Kobler, sembra molto sicuro del futuro libico, perché può contare sull’appoggio delle grandi potenze, ha l’impegno italiano ad entrare direttamente nel gioco della creazione di stabilità quando fosse chiamato dal legittimato governo, gode del credito dell’Unione Europea al supporto della nuova situazione. Soprattutto può fare affidamento sulla consapevolezza che tutte le parti in gioco concordano sul rischio concreto che Daesh allarghi in modo inarrestabile la sua influenza nel paese. Se il problema è come unificare 140 milizie e gruppi differenti che agiscono in collegamento con i centri di potere che hanno prosperato sulla crisi (Consiglio nazionale di Tripoli e Camera dei rappresentanti di Tobruk), è il terzo soggetto in lizza (salafiti all’assalto di Derna e Bengasi e adepti soprattutto tunisini di un Daesh che riceve linfa e combattenti dall’esterno) a porre in modo drammatico la necessità di unificazione sotto bandiera ONU.
E’ una lezione che non vale solo per il frammentato panorama tribale libico. Sappiamo tutti il ruolo che le ambizioni di taluni stati europei, segnatamente Francia e Italia con sullo sfondo Regno Unito, hanno giocato nello scatenarsi della crisi libica. Quelle ambizioni sono ora sospinte, dalla situazione, a mettersi al servizio della bandiera Nazioni Unite; anzi, non sarebbe male che lo facessero non a lato ma dentro l’azione diplomatica dell’Alto rappresentante UE Federica Mogherini.
Il richiamo alle milizie estere e alle interferenze che taluni paesi del Golfo esplicano nelle crisi aperte tra Africa e Medio Oriente finanziando e armando il conflitto in modo diretto o indiretto, sposta l’attenzione su un altro teatro di crisi, quello siriano. E’ di questi giorni la conferma della presenza di militari iraniani inviati dal governo, che si aggiunge a quella di militari arrivati da Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Emirati.
Nel caso siriano, come in quello libico sarebbe opportuna una Missione di Assistenza Internazionale. Se ne parla per la Libia più che per la Siria benché, per certi versi, la situazione siriana sembri destinata a chiarirsi e stabilizzarsi prima ancora di quella libica. L’accordo di Monaco dello scorso 12 febbraio ha certamente avuto come protagonisti Mosca e Washington, ma recitando le due potenze un ruolo pesante all’interno del Consiglio di Sicurezza, potranno agevolmente impegnare l’ONU alle politiche inclusive delle quali la Siria ha bisogno per la sua pacificazione. I tempi saranno lunghi, ma a questo punto l’importante è che si compia il percorso di speranza avviato nella cittadina bavarese.
A questo proposito l’esperienza fatta dall’ONU nella Repubblica Centrafricana e in Burundi può assistere, per i parallelismi che si possono notare.
Il palazzo di vetro soffrì un lungo periodo di indecisione prima di inviare nei due paesi un contingente a protezione dei civili e per l’opera di pacificazione.
Si trovò spiazzato davanti alle punte di estremismo espresse dagli islamisti, con la ferocia che ha contraddistinto le loro azioni, in particolare verso le donne.
Ebbe modo di avvalersi della collaborazione dell’Organizzazione del’organizzazione regionale, Unione Africana.
Manifestò tardivamente polso nei confronti di caschi blu che avevano attuato comportamenti contrari ai loro doveri etici e di ingaggio.
Ciò nonostante, se i due paesi hanno speranza di pacificazione, la devono all’iniziativa assunta dalle Nazioni Unite, in accordo con le potenze regionali africane.
Anche i processi di pacificazione avviati in Medio Oriente, in collaborazione con l’ONU, hanno sofferto di molti dei limiti riassunti per i due casi africani. Quello che però più conta è che pace e sviluppo, con l’ONU, stiano sperimentando, nei casi mediorientali come in quelli africani, la possibile fioritura.