Con il teatro coreano sempre più nervoso e la Cina sempre più assertiva, l’Asia di sud est rimane, grazie anche al lavoro della sua associazione regionale, Asean, la scommessa più importante per la trasformazione in senso democratico dei regimi politici asiatici. La tradizione dispotica, dura a morire, ha trovato, nel presente decennio, lodevoli eccezioni, specie nel ritorno al metodo elettorale in Birmania e la prevedibile presidenza di Htin Kyaw, fedelissimo di Suu Kyi. La Thailandia, da sempre il paese più avanzato della regione nel sentiero verso la democrazia, sta invece dando, in quest’ambito, segnali che preoccupano.
La giunta militare, al potere dal maggio 2014 con un colpo di stato che interruppe un decennio di dura lotta politica (condito di manifestazioni e continui scontri sul terreno con centinaia di morti) e si fece apprezzare per l’assoluta mancanza di violenza, non sta mantenendo le promesse di ritorno al multipartitismo elettorale, e rischia di cacciarsi in un vicolo cieco. Male per un’istituzione, le forze armate, che godono di stima e appoggio popolare, e peggio per il paese che vive di turismo e abbisogna di investimenti esteri e non può quindi rovinare la fama di luogo pacifico d’accoglienza.
Il punto di crisi risale allo scorso settembre quando il Comitato per le riforme bocciò la bozza della costituzione (la ventesima dal 1932, data dell’uscita dalla monarchia assoluta) destinata a mettere fine all’eccezione del governo militare. Il rigetto della proposta ha generato lo stallo, e causato il rinvio delle elezioni parlamentari già previste per quest’anno. Il paese pazientemente attende per la fine di questo mese di leggere il nuovo testo di costituzione, per poi andare al referendum.
Nel vuoto costituzionale, la giunta ha ritenuto di accentuare la pressione sulla società civile e sull’opposizione politica, stimolata anche dal peggioramento della salute dell’ottantasettenne sovrano Bhumibol Adulyadej, evento che sposta una situazione già sufficientemente ingarbugliata, dal piano politico a quello istituzionale. Da anni gli osservatori si chiedono se e come sopravvivrà la monarchia alla morte di Bhumibol visti i non pochi problemi che circondano la sua successione, e se l’insorgenza islamica nel sud del paese coglierà l’occasione per attentare all’unità nazionale.
Chi visita la Thailandia in questi giorni che segnano l’inizio dell’estate e della stagione turistica, non percepisce nulla di particolare, ma se apre i quotidiani in lingua inglese, comprende che sta montando una tensione che non gioverà a nessuno, tanto meno alle Forze armate che dicono di agire per puro patriottismo. Serve moderazione, tanto più se dovesse venire a mancare, in detto contesto, la stimata e amata figura reale. Il paese potrebbe finire repentinamente in una spirale che l’attuale governo gestirebbe necessariamente fuori da qualunque quadro costituzionale, in base alle leggi autoreferenziali che ha emanato. Per qualche esempio, le norme attualmente in vigore consentono al primo ministro Prayuth Chan-ocha, espressione della giunta, di emettere decreti legge per “bloccare o sopprimere minacce alla sicurezza nazionale o alla monarchia”, nonché di arrestare persone “in caso di incidente, senza bisogno di un mandato”.
Tre avvenimenti di questa settimana, i cui sviluppi sono in corso, avvalorano i timori espressi.
Il primo riguarda il rapporto tra regime, meglio lo stato, e la religione predominante, il buddhismo. Dalla morte, nell’ottobre 2013, del patriarca supremo dei monaci buddhisti thailandesi, il centenario Somdet Phra Nyanasamvara, la Thailandia è senza patriarca, causa il diniego della giunta a proporre al re, al quale spetta la nomina, il nome scelto dall’associazione delle Sangha (Sa, unione delle assemblee buddiste), l’ultranovantenne Sojdej Phra Maharajmangklajarn. Il diniego ha una causa remota e una ravvicinata. La remota riguarda l’opposizione alla richiesta, avanzata già nel 2007 da una parte del buddismo, di elevare il culto del ”risvegliato” a religione di stato. Non si tratta di un pio e innocente desiderio: per premiare l’odio razziale e religioso che una buona fetta di monaci esprime contro le minoranze musulmane di quattro regioni meridionali, si trasformerebbe la democrazia thailandese in stato confessionale. Dal 2004 gli scontri confessionali in quella parte di Thailandia hanno fatto 6.500 morti: facile immaginare cosa accadrebbe se la nuova costituzione facesse suo il principio di faziosità religiosa, una visione estremista arrivata dalla vicina Birmania.
La causa ravvicinata sta nella supposta solidarietà del candidato patriarca con le posizioni delle camicie rosse degli Shinawatra, il movimento politico più volte al governo, rappresentativo delle campagne sfruttate e arretrate del meridione, i cui comportamenti hanno contribuito a generare il colpo di stato. Fatto sta che il Segretario generale del Centro thailandese per la protezione del buddismo, phra Methithammajarn, nei giorni scorsi è stato fermato dalla polizia e investigato per trenta minuti, all’uscita da una conferenza stampa nella quale, tra l’altro, aveva rigettato le accuse per l’acquisto di una Mercedes d’epoca, collegata dal regime a non meglio identificati traffici ed evasione fiscale. Il primo ministro, che è all’estero, si chiede se le regole che vengono dalla tradizione e dai santi testi del buddismo siano a questo punto sufficienti, e minaccia i circa 350mila tra monaci e novizi: “Se la controversia continuerà, dovremo chiederci se la disciplina del Dharma è sufficiente alla conclusione del problema. Io sono buddista e per me i monaci sono sacri. Non vorrei assistere al declino di questa religione”.
Il secondo avvenimento è altrettanto gravido di conseguenze. Mercoledì le autorità hanno fatto circolare la notizia che esiste un elenco di seimila persone “influenti e corrotte”, presenti in tutti i gangli della pubblica amministrazione e dello stato, poliziotti e soldati inclusi. Accanto a chi si è rallegrato per la sensazione che finalmente si vogliano colpire i tanti corrotti collegati a mafie, attività sordide e illegali come prostituzione e droga, c’è chi ha visto nella mossa il tentativo estremo della giunta contro intellettuali e politici che potrebbero dare problemi nella fase costituzionale ed elettorale alle porte. Quando, nelle prossime settimane, inizieranno fermi e detenzioni, si capirà meglio in quale dose, alla formazione del lunghissimo elenco, abbia contribuito il desiderio rispettivamente di pulizia o di rafforzamento del potere.
Il terzo avvenimento riguarda un’imprevista norma transitoria che sta avendo la sua collocazione nella bozza di costituzione: istituisce per cinque anni il senato di 200 membri nominati, tra i quali non si fatica ad immaginare la qualificata presenza degli attuali membri del Consiglio nazionale per la pace e l’ordine, e di membri della vigente assemblea nazionale legislativa, che annovera più di cento esponenti delle forze armate. Detto organo avrebbe potere di interferenza nell’attività del parlamento eletto a suffragio popolare e potrebbe anche mandare a casa il governo. La democrazia, appena restaurata, si troverebbe di fatto, almeno per il primo quinquennio, sotto tutela militare. Non è finita. A Bangkok, in ambienti bene informati, si dice che la giunta si appresti a stabilire norme di comodo per regolare il referendum costituzionale, e le elezioni parlamentari che ci saranno subito dopo.
Forse ha ragione l’intellettuale thailandese che alla giunta attribuisce la sindrome di accerchiamento che prima o poi colpisce tutti i regimi militari. O forse, come sostiene un suo collega, il governo vuole distrarre l’opinione pubblica dalle difficoltà che il paese sta attraversando per il rallentamento dell’economia e la siccità nel nord-est agricolo. Qualunque sia la spiegazione, è evidente che gli autori del colpo di stato non ritengono ancora giunto il momento di mollare la presa sullo stato e la società civile.