Dopo una seconda notte di negoziati e revisioni, alle 4 di sabato mattina il gruppo di lavoro del presidente della conferenza ONU sul clima di Parigi, il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, ha inviato ai legali il testo definitivo dell'accordo risultato dalle due settimane di lavori della Cop21, la conferenza delle parti della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC). Nel pomeriggio il testo è stato poi formalmente accettato dalla conferenza e in serata passerà dall'assemblea plenaria. L'accordo, che deve essere adottato dalle 196 parti della UNFCCC, sarà aperto alle firme dal 22 aprile 2016 al 21 aprile 2017 a New York, per poi entrare in vigore nel 2020.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha definito il documento “storico” affermando che questo testo mette il mondo su un nuovo percorso verso un futuro a basse emissioni e resiliente ai cambiamenti climatici. Ma a leggere il testo dell'accordo, francamente l'entusiasmo sembra ben poco giustificato.
I delegati sono arrivati a Parigi con l'incubo di ripetere il rovinoso fallimento del vertice di Copenhagen del 2009 che riportò le trattative sul clima indietro di anni. Quella paura portava con sé un rischio: quello di un accordo a tutti i costi. E così è stato. Messa definitivamente nel cassetto l'idea di impegni vincolanti in favore di impegni volontari, il testo che emerge dalle due settimane di negoziati a Parigi è lontano dall'obiettivo. Meglio che andarsene a casa a mani vuote come a Copenhagen, ma da qui ai toni trionfalistici del presidente francese Hollande, che in chiusura del summit ha parlato di “opportunità di cambiare il mondo”, ce ne passa. O meglio, Hollande ha avuto ragione: i delegati avevano l'opportunità di cambiare il mondo e soprattutto di assicurare un futuro al Pianeta, ma se questo futuro ci sarà, il merito non sarà dell'accordo di Parigi.
Il testo che viene presentato all'assemblea plenaria è infatti criticamente debole, un accordo di compromesso che, nel caso migliore, non è che l'inizio di un lunghissimo percorso. Dopo il fallimento della Cop15 di Copenhagen, la comunità internazionale ha sostanzialmente cambiato approccio passando da quello che viene definito un approccio top-down a un atteggiamento di tipo bottom-up. Di fatto questo significa che, per evitare di scontrarsi con le resistenze di alcune nazioni a obiettivi di riduzione delle emissioni imposti dall'alto, si è deciso di chiedere ai singoli paesi di presentare piani individuali di tagli ai gas serra. Inoltre, questo nuovo approccio prevede l'impegno di tutti i paesi, in considerazione “delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive possibilità” (come si legge nel testo dell'accordo di Parigi), piuttosto che imporre tagli ai soli paesi industrializzati come previsto in precedenti ipotesi di accordo.
Così, a Parigi, la prima parte della conferenza si è concentrata proprio su questi piani nazionali, cercando di calcolarne gli effetti globali. E quanto è emerso poteva essere sufficiente a far saltare l'idea stessa di un accordo. Infatti, secondo i calcoli dell'UNFCCC, i piani nazionali presentati a Parigi, complessivamente ci porterebbero al 2025 con 8.7 miliardi di tonnellate di CO2 in più della quantità che ci consentirebbe di limitare il riscaldamento globale a quei +2°C considerati la soglia di sicurezza (relativa). Complessivamente e sul lungo periodo, i tagli alle emissioni proposti ci porterebbero a un innalzamento della temperatura di almeno 2.7° C rispetto ai livelli preindustriali. Abbastanza per dire addio al mondo come lo conosciamo, secondo gli scienziati.
E per quanto alla conferenza di Parigi si fosse creata un'inedita alleanza tra nazioni (che comprendeva anche gli Stati Uniti che in passato erano invece stati tra i paesi che avevano rallentato il percorso verso un accordo internazionale sul clima), autoproclamatesi “high ambition coalition”, che hanno cercato di far entrare nel documento un impegno da parte della comunità internazionale a limitare l'innalzamento della temperatura non a 2°C, bensì a un più ambizioso e più sicuro 1.5°C, il testo finale mantiene quel riferimento solo come proposito. Insomma, poco più che una dichiarazione di buona volontà, un riconoscimento del fatto che il limite di 1.5 sarebbe ciò cui aspirare, del fatto che dovremmo fare di più ma evidentemente non ne siamo capaci e quindi dobbiamo accontentarci. Ma per quanto riconoscere il problema sia certamente un passo avanti, la soluzione resta lontana.
Il testo emerso da Parigi prevede che i piani presentati dai paesi vengano rivisti ogni cinque anni ma che possano essere aggiustati solo in direzione di più consistenti tagli. Le revisioni quinquennali, tuttavia, si preannunciano un processo non semplice, soprattuto considerato che il documento fornisce poche o nessuna indicazione, né limiti, riguardo la consistenza degli impegni da parte delle nazioni coinvolte.
Un altro punto che aveva rappresentato uno scoglio nelle precedenti trattative è quello degli aiuti ai paesi in via di sviluppo: sulla base del meccanismo noto come loss & damage, viene stabilito che i paesi più industrializzati abbiano l'onere di supportare economicamente le nazioni in via di sviluppo nello sforzo di mitigazione e adattamento. Nel testo si legge che la Conferenza delle parti “esorta fortemente” i paesi sviluppati ad aumentare il proprio livello di sostegno finanziario, con una concreta tabella di marcia, per raggiungere l'obiettivo di fornire congiuntamente 100 miliardi di dollari l'anno entro il 2020 per la mitigazione e l'adattamento. La cifra sarebbe un punto di partenza dal quale andare poi a salire negli anni. “Un aiuto misero”, secondo Kumi Naidoo, direttore esecutivo Greenpeace International che così ha commentato l'accordo in un comunicato stampa: “Ora viene la più grande sfida di questo secolo. Come mantenere l'aumento di temperatura al di sotto di 1.5°C? Gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni non sono sufficienti, e l'accordo di Parigi non fa nulla per cambiare questa cosa. Se davvero vogliamo raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero entro la seconda metà del secolo, dobbiamo azzerare quelle delle fonti fossili entro il 2050”.
Insomma, sul clima la comunità internazionale a Parigi sembra essere tornata ai posti di partenza. Anni di trattative fallimentari hanno costretto a rivedere gli obiettivi al ribasso e i toni trionfalistici che hanno accompagnato l'accordo raggiunto sabato dimostrano con drammatica evidenza quanto poco ambiziosi siano gli obiettivi globali sul clima. Quello che hanno chiamato accordo definitivo non è che una bozza o una serie linee guida, una dichiarazioni di intenti. Per quanto la storia delle Cop insegni a tenere basse le aspettative e il linguaggio ONU ci abbia abituati a toni sempre di compromesso, era lecito aspettarsi di più da questa conferenza. Resta la soddisfazione per un documento approvato e per essere riusciti a interrompere il pattern di fallimenti avviato a Copenhagen. Tuttavia questo documento sembra indicare la strada, mostrandola lunga, tortuosa e in salita, più che centrare l'obiettivo.
Vale la pena ricordare che questa conferenza, come tutte le Cop degli ultimi anni, doveva servire a trovare un erede al protocollo di Kyoto che, pur avendo poi mostrato forti limiti, rimane l'unico reale e concreto accordo sui cambiamenti climatici che la comunità internazionale sia mai riuscita a produrre. Rispetto al linguaggio e ai vincoli del protocollo di Kyoto, il testo di Parigi sembra poco più che una stretta di mano con un occhio al futuro.
Ma una formulazione come quella di Kyoto nel 2015 non sembra più pensabile e non solo perché gli assetti industriali delle nazioni del mondo sono cambiati facendo emergere nuovi grandi emettitori, ma anche perché a troppi paesi i vincoli non piacciono. Negli Stati Uniti, un Senato che in larga parte si oppone alle politiche sui cambiamenti climatici del presidente Obama, dopo Parigi dovrà fare i conti con questo nuovo impegno internazionale. Ma, nell'evitare di stabilire limiti vincolanti in favore di tagli volontari, il nuovo accordo si mette parzialmente al riparo da opposizioni interne ai singoli paesi. Nel caso degli Stati Uniti, un accordo che prevedesse vincoli sarebbe stato considerato un trattato, quindi sottoposto al voto del Senato che lo avrebbe quasi certamente rigettato.
Intanto ci avviamo alla conclusione di un anno che ha visto il superamento di due livelli critici per il climate change: nel 2015 il riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali ha superato 1°C e, secondo dati del Mauna Loa Observatory delle Hawaii, la concentrazione globale di anidride carbonica nell'atmosfera ha raggiunto 400 parti per milione, contro un limite di sicurezza fissato dagli scienziati a 350 parti per milione. Le conseguenze sono già sotto gli occhi di tutti e sono tante le isole e le zone costiere che rischiano di sparire, Miami Beach inclusa. Contro questi e altri disastrosi effetti dell'industrializzazione, il fragile accordo di Parigi non basterà.