"Siamo in guerra contro il terrorismo e ci attrezzeremo di conseguenza". Il presidente della Repubblica tunisino Beji Caid Essebsi non ha tentennamenti che invece sembrano caratterizzare le democrazie europee: chiude le moschee pericolose (oltre 75 in tutto il paese), e dichiara lo stato d’emergenza per due o tre mesi nel governatorati di Tunisi che comprende la capitale, Ben Arous, Ariana un grosso centro alla periferia di Tunisi e Manouba e mobilita carri amati e truppe ai confini con l’Algeria e la Libia. Mentre l’Europa tentenna sui provvedimenti da prendere contro i terroristi, il paese che conta oltre 1200 reclute nell’Isis, a maggioranza musulmana sunnita, si mobilita. Militari, posti di blocco e fermi oltre a controlli su persone ed auto ad ogni ora del giorno. Ufficialmente fino a fine dicembre, ma in molti sono certi che non sarà così. E il ministro dell’Interno dichiara di aver arrestato oltre mille persone.
Ma come si vive in un clima di guerra annunciata in quello che è considerato il paese musulmano del Nord Africa più aperto? Lo stato d’emergenza, consente alle autorità di impedire scioperi e manifestazioni pubbliche, e oltre a chiudere locali pubblici, anche adottare qualsiasi provvedimento adatto per controllare stampa e pubblicazioni di qualsiasi natura. E sono soprattutto i giovani tunisini a soffrire. Oltre naturalmente l’economia. Revocato ad ottobre, dopo il vigliacco attentato sulla spiaggia di Susse il 26 giugno scorso, costato la vita a 38 persone, soprattutto bagnanti britannici. Ma i tunisini avevano sperimentato già oltre tre anni di misure speciali dal 14 gennaio 2011 al marzo 2014, dopo la rivoluzione dei Gelsomini, che per prima aveva infiammato tutto il Magreb finita con la fuga del presidente in carica Zine al Abidine Ben Alì.
Già dopo l’attentato al museo Bardò, a marzo con 24 morti, tra cui 4 italiani, la prima conseguenza era stato il blocco degli arrivi dei croceristi, il divieto di viaggiare in Tunisia per inglesi e tedeschi; poi bagnanti mitragliati in costume da bagno in spiaggia; infine , un kamikaze che ha ucciso 13 soldati della scorta del presidente salendo sull’autobus che li riportava in caserma imbottito di tritolo e facendosi esplodere. Un disastro per turismo e sicurezza. E poi attentati vari di minore entità. E per i tunisini divieti: divieto di viaggiare verso i confini Algerini e Libici, divieto di uscire di casa la sera in auto e a piedi. E donne velate ovunque. Per civetteria o perché convinte così di proteggersi da molestatori e malintenzionati, le donne tunisine sono tornate al velo. Non tutte certo, ma la maggioranza. E sulle vie dello shopping o nel suk (quello popolare perché quello per turisti è deserto) si mischiano a libiche intabarrate in abaya marroni comprese di guanti e abaya ancora più tetre e nere delle saudite.
Un cambio impensabile fino a dieci anni fa che spinge la Tunisia verso un isolamento economico e sociale pericoloso. Stop al turismo straniero che valeva il 7% del Pil e dava lavoro a 7 persone su 10; che ha lasciato il posto a quello arabo con piscine di alberghi a 5 stelle piene di donne velate che fanno il bagno vestite (allontanando ulteriormente anche le straniere residenti restie al bagno vestite per motivi igienici); fuga di industrie straniere del tessile, della lavorazione di cibo e prodotti elettrici che in massa si sono spostate nei paesi dell’Est, più sicuri e conveniente allo stesso modo. Oggi la Tunisia è un paese apparentemente tranquillo che langue in un’economia bloccata e senza via d’uscita.
Ma il terrore serpeggia al punto che l’Algeria ha chiuso le sue frontiere e nessun tunisino può entrarvi via terra. Un paese al buio, senza turisti e con un’economia che rischia il collasso. Spegnere le luci di discoteche, bar, ristoranti e fermo auto e pedoni dalle 11 di sera alle 6 di mattina è stato un ulteriore colpo alla vita economica della Tunisia che viveva di turismo e di rapporti commerciali molto stretti con l’Europa, Francia e Italia in testa alla classifica. Tunisi a 40 minuti di volo da Roma è sempre stata una meta turistica comoda ed economica. Molto dell’olio extra vergine d’oliva, i pomodori, il pesce che finisce sulle tavole degli italiani arriva da qui. La lavorazione finale di jeans, vestiti, borse scarpe e maglioni era prerogativa di fabbriche di tunisini e italiani che insieme hanno creato marchi e fatturato milioni. Il costo di un operaio tunisino è intorno ai 150 euro al mese ed inoltre i sindacati sono meno attenti ai diritti dei lavoratori. Ora tutto questo è fermo. Spento, come le luci di bar e discoteche.
"Noi siamo in guerra contro il terrorismo. Una guerra che non è solo contro la Tunisia, ma ha dimensioni internazionali”, ha detto il presidente. E l’Europa dovrebbe fare maggiori sforzi per non lasciarla sola. Anche se Stoccolma ha appena assegnato il premio Nobel per la pace al “Quartetto per il dialogo nazionale”, quattro sindacalisti che affiancano il presidente nel cammino verso la democrazia.
Ma come si vive oggi in Tunisia?
Disoccupazione alle stelle ma aumento dei prezzi a causa dell’emigrazione di ricchi libici sfuggiti alla guerra; caffè (dove a differenza dei bar non si servono alcoolici) pieni di giovani che passano le mattine a fumare e a sorseggiare the; buio pesto per l’impossibilità di uscire di casa dopo le 11 di sera e posti di blocco e controlli e manette a chiunque non rispetti le regole, sia esso automobilista o pedone. Un disastro ulteriore all’economia e alle abitudine dei giovani che devono restare chiusi in casa. Chiusa la famosa discoteca Carpe Diem della località di mare di moda vicino Tunisi, La Marsa; chiusa la Madison sulla centralissima via Mohamed V, ai giovani non resta che la televisione e Facebook, o salire su un barcone ed andarsene.

Una scena del film del regista marocchino Nabil Ayouch “Much Loved”
E non è un caso se uno dei pochissimi cinema della capitale è stato letteralmente preso d’assalto durante la proiezione di Much Loved, il film di Nabil Ayouch che ha scandalizzato il mondo musulmano, specialmente il Marocco dove è stato girato. L'argomento trattato nel film è scottante: le protagoniste sono quattro prostitute di Marrakech che vendono il proprio corpo a ricchi sauditi oppure a uomini senza scrupoli. Le scene sono spesso hard, nulla è lasciato all'immaginazione mentre tutto ruota attorno al denaro. Il film racconta lo squallore della vita di queste donne ed è una accusa pesantissima all'ipocrisia della società araba. Infatti tantissime nord africane si prostituiscono in Arabia Saudita dove l’ingresso alle donne sole se non musulmane è proibito. Poi bisogna considerare che una donna divorziata o vedova non ha molte speranze di emancipazione economica. Una figlia femmina eredita meno. E inoltre le tunisine conoscono l’arabo oltre al francese, sono eleganti e conoscono le regole. Ma non è solo la libertà sessuale a scatenare la società civile tunisina. E’ in atto una campagna virale su Facebook per far tornare i turisti spaventati, con la pagina “I will come to Tunisia this summer” che conta oltre 60 mila amici in tutto il mondo. Con foto su foto di spiagge, cibo e amici tunisini che dichiarano: “I Will come to Tunisia this summer “. Messaggi che arrivano dalla Giordania, dalla Russia, da New York e da ogni parte del mondo. In un grandissimo e infinito appuntamento con la pace, la fratellanza e la solidarietà per un popolo che non vuole il terrorismo ma vuole solo crescere e lavorare. Una campagna che si è estesa su twitter e Instagram a cui hanno partecipato deputati e senatori italiani come Emma Bonino e il primo ministro francese.
Poi c’è la contraddizione di moltissime studentesse che rifiutano la tradizione. Se infatti alle ragazze d’Egitto vengono cucite le vagine per non permettere loro di avere rapporti sessuali, le tunisine sono abbastanza libere di vivere con discrezione, la loro vita sessuale (è comunque proibito per legge baciarsi in pubblico). E poi c’è il fenomeno del boom delle cliniche private che rifanno la verginità. Poiché gli standard ospedalieri sono eccellenti, la Tunisia è meta di moltissime arabe che vengono a ricostruirsi l’imene. Se le spiagge sono vuote, le cliniche private sono piene. Con bravissimi medici che hanno studiato a Parigi che prima rifacevano seno o glutei delle signore della società europea e oggi si trovano ad eseguire tantissime himenoplastiche, ovvero la ricostruzione dell’imene, al prezzo di circa 500 euro. Meno della metà di una clinica di Parigi o di Roma. Perché non bisogna dimenticare che non essere vergini, potrebbero costare la lapidazione alle giovani dalla verginità perduta che vengono dai paesi arabi. Nel mondo musulmano infatti è doveroso per una donna giungere vergine al matrimonio. E il documentario del 2010, “Imene nazionale “ diretto da Jamel Mokni che raccontava molto bene cosa significava per le musulmane, sottomettersi a questa operazione ne è la testimonianza più veritiera. In Tunisia lo hanno visto tutti mentre resta proibito in tutto il mondo musulmano.
Ma è il terrorismo che preoccupa maggiormente oggi. E non potendo uscire la sera, Facebook per molti giovani diventa il mezzo di comunicazione preferito.
"Voi avete 100 kamikaze, noi abbiamo 10 milioni di tunisini istruiti", commenta Jamila su Facebook. Mentre per Fatma la lunghissima coda dei giovani di Tunisi per guardare questo film-verità Much Loved, in barba alla censura, è la migliore dimostrazione che soltanto la cultura può vincere il terrorismo e il fondamentalismo islamico. "Per coloro che pensano che i ragazzi vanno a vedere questo film per il lato osé – aggiunge Marcello Pelo Casamassima, giovane musicista e cantante rock italiano che ha scelto la Tunisia come nuova patria – dico che non è così, perché i giovani sfidano i tabù che impestano la nostra società. Allora bene che si rompano i tabù ma senza denigrarci perché noi siamo il futuro della Tunisia".
Con fatica e speranza, anche per noi europei. Ed è vero.